In collaborazione con Sofia Lawrence
Uomo (agitato): È assurdo che chiediate il documento solo a me!
Controllore: Signore, è una procedura standard per i biglietti elettronici senza QR code.
Uomo: E allora perché non l’ha chiesto anche a quel signore? (indica un passeggero vicino a lui, con pelle bianca e giornale economico sotto braccio)
Sofia e Alessandro hanno osservato la scena in attesa del treno che li porterà alla riunione.
Sofia – Un po’ sospetta la richiesta del controllore, non credi?
Alessandro – Mi ha ricordato il film Indovina chi viene a cena. L’hai visto? Racconta le goffe interazioni tra le famiglie dei protagonisti, lei bianca e lui nero, nella San Francisco degli anni ’60.
S – Non mi pare, dovrei chiedere ai miei genitori ☺ Però ho visto di recente The Six Triple Eight, un film sulle difficoltà del battaglione americano formato da donne nere durante la Seconda guerra mondiale, ostacolate dai superiori del loro stesso esercito, sia nelle questioni belliche sia nella vita quotidiana. Te lo consiglio: perfetto esempio di razzializzazione.
A -Cioè?
S -Parola non ancora molto comune in Italia. Viene dall’inglese racialization: la sociologia ha iniziato a usarla negli anni 90’ per descrivere come differenze etniche o culturali vengano trasformate in segni di distinzione razziale, collegandovi valori negativi e portando a discriminare o marginalizzare alcune persone. La parola aiuta a ricordare la natura sociale e costruita di questi collegamenti, rifiutandone il nesso tutto arbitrario a presunte basi biologiche. L’effetto collaterale può essere quello di attribuire connotati razziali o etnici a situazioni che non c’entrano nulla con la razza, ma che finiscono per essere interpretate così.
A – A quanto ne so, proprio nulla c’entra con la razza. La scienza ha accertato che le razze non esistono. È nota la storia dell’arrivo di Albert Einstein all’ufficio immigrazione americano, nel 1933: compilando il modulo, alla domanda sulla razza, scrisse “umana”. Esistono le etnie, comunità i cui membri hanno in comune un insieme di elementi culturali, come la lingua, gli usi, le tradizioni.
E fin qui, non sembra esserci molta differenza fra razzializzazione e razzismo. Da linguista, mi chiedo: quella -azione non starà a significare qualcos’altro? C’è aria di nominalizz-azione, ossia trasformazione di un verbo in nome. Le parole che terminano in -zione, -mento, -aggio o –tura, indicano che sotto c’è un verbo, un agire, un fare qualcosa.
S – Ha ragione Prof, la definizione era incompleta ☺ Hai centrato il punto: spesso le due parole sono usate nei media come sinonimi. Ma quel suffisso -azione pone il focus proprio sul creare qualcosa. Indica il processo che è servito a legittimare strutture di potere e disuguaglianza, è il razzismo che si manifesta attraverso atti, eventi, comportamenti. Io la interpreto così: la razzializzazione è il processo che ha “normalizzato” i comportamenti razzisti. È importante anche capire che, quando parliamo di persone razzializzate, ci riferiamo a chi subisce questo processo di categorizzazione. Ovviamente non è una caratteristica intrinseca delle persone, ma qualcosa che la società crea contro determinati individui o gruppi.
A -Apprezzo la tua interpretazione, Sofia. Esiste anche una definizione ufficiale?
S – Ti soddisfa questa?
L’espressione razzializzazione designa il processo di attribuzione e di affermazione di differenze basate su idee razziste. Le persone e i gruppi della popolazione vengono così categorizzati, stereotipati e gerarchizzati sulla base di caratteristiche fisiche, sociali o mentali reali o presunte. Il termine è usato per sottolineare il costrutto sociale di “razza”. Razzismo e razzializzazione non possono essere scissi perché la razzializzazione implica la distribuzione del potere e quindi l’esercizio del dominio. In questo senso, il processo di razzializzazione serve a legittimare atti razzisti inconsci o consapevoli.
Consiglio Federale Svizzero, dipartimento dell’Interno
A – Ok. E da un dizionario della lingua italiana?
S – Ecco: la parola è ancora fuori dai principali dizionari della lingua italiana. È singolare che il Treccani ci arrivi solo per negazione, ossia aggiungendo il prefisso de-, come se si potesse concepirla solo pensandola come evitata, o superata:
derazzializzazione– L’eliminazione delle concezioni e dei caratteri razziali.
A – E a proposito della “azione”: qualche esempio pratico?
Che succede in Italia?
S – Pensa a tutte le volte in cui qualcuno riceve un trattamento speciale solo per il colore della pelle o per l’accento. In Italia l’esperienza delle persone nere è accomunata da una sequela di domande fastidiose. La scrittrice francese Espérance Hakuzwimana Ripanti le elenca nel libro E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana: Da dove vieni? Ma parli benissimo l’italiano! Con chi vivi? Come mai hai lasciato il tuo paese? E la tua famiglia dov’è? Domande normalissime, magari poste in buona fede, ma avvertite come inopportune se rivolte a persone straniere. Si dà per scontato che siano migranti, senza un’istruzione, per cui situazioni comuni generano stupore o curiosità sproporzionate. Assurdo, per chi è nato e cresciuto in Italia, dover giustificare la padronanza della propria lingua.
A – Ricordo il caso di un avvocato di Napoli, di origine nigeriana, che aveva dovuto mostrare il tesserino e aspettare che facessero delle verifiche perché il giudice non credeva che fosse proprio lui l’avvocato. Più recente, la discobola torinese Daisy Osakue, nazionale delle Fiamme Gialle, che in un negozio di elettronica, spostandosi da un piano all’altro reggendo il prodotto che voleva acquistare, è stata fermata e accusata di non voler pagare. Daisy è nera. Si è dovuta difendere mostrando il tesserino della Guardia di Finanza. M’immagino la conversazione: «T’ha detto male, amico, potrei fartele io le pulci sulla tua correttezza professionale». ☺
S – Sai, sui social seguo una creator, Loretta Grace, che spiega proprio il peso dei pregiudizi inconsci legati al colore della pelle. Parla di come anche i filtri beauty delle app siano spesso costruiti su standard di bellezza occidentali.
E “color carne” si può dire?
A – Quindi anche l’espressione “color carne”, riferita a calze, canottiere o altri indumenti, immagino sia super-razzializzante?
S – È il riflesso di un’epoca con una visione limitata della diversità umana. Ben cinque importanti dizionari della lingua italiana – Garzanti, Devoto-Oli, De Mauro, Treccani e Zingarelli-Zanichelli – bollano l’espressione come discriminatoria, perché assume come unico riferimento il colore della pelle bianca. Sappiamo bene che i colori carne sono plurali, hanno molte sfumature: dal beige pallido al marrone scuro. Tenerlo presente è un’opportunità per ridefinire il nostro linguaggio in modo che rifletta la ricchezza e la bellezza della diversità umana.

Immagine tratta dal sito www.colorcarne.it
A – Mi salta alla memoria una battuta di Muhammad Ali: «Dicono ai bambini che Gesù era bianco, e pure gli apostoli e gli angeli. Il Presidente degli USA vive nella Casa Bianca. Perfino Tarzan è bianco. Ma come? Bianco uno nato e cresciuto nella giungla?»
Razzializzazione sistemica
S – Ali sapeva forse già molto su ciò che oggi è chiamato razzializzazione sistemica. Non sono solo gli episodi evidenti come quelli descritti poco fa, ma è tutto un sistema di micro-aggressioni quotidiane che categorizzano le persone in base al colore della pelle o alla presunta provenienza geografica. C’è un video che ha creato molto dibattito negli Stati Uniti, This Is America, di Childish Gambino, perché mette in scena, collegandole, molte caratteristiche e fasi storiche e giuridiche del razzismo. Per esempio, in Italia una persona nera viene automaticamente “pensata”come una persona immigrata. Negli Stati Uniti è facile sia vista con sospetto dalla polizia, perché lì è comune credere che sia pericolosa, per questioni, appunto, sistemiche. Stereotipi che conosciamo già, ma la parola “razzializzazione” ci fa riflettere su come e perché si sono radicati in noi.
A – Penso anche a come, nei titoli dei giornali, vien spesso specificata l’origine etnica di una persona, “Un africano fa causa a premier…” (Libero, 4 febbraio 2025). O a quando una persona viene definita “esotica” per il colore della pelle, la forma degli occhi o l’accento: l’intento può sembrare innocuo, persino amichevole, ma quella parola implica una distanza culturale che, anche quando espressa con gentilezza, rafforza una gerarchia implicita, crea una separazione. L’impatto può essere particolarmente forte nei giovani, che stanno costruendo la propria identità e possono interiorizzare questi messaggi come una verità su di sé, subendo un’influenza anche sulle opportunità lavorative e d’integrazione. Alle persone razzializzate tocca spesso lottare contro narrazioni già scritte, che le dipingono come meno qualificate o pericolose.
S – Vero, basta pensare a come alcune etnie siano state legate direttamente a delle professioni. A Milano un po’ di tempo fa era molto di moda avere il filippino, di qualunque nazionalità fosse. E lo stesso è successo in tutta Italia con i minimarket di cibo etnico aperti 24/7, ormai il bangla. Per non dimenticare il marocchino che gira sulle spiagge vendendo cose.
Una questione di controllo e libertà
A – Ma secondo te, perché tutto questo ancora oggi?
S – Secondo Nadeesha Uyangoda, autrice del libro L’unica persona nera nella stanza, essere un soggetto razzializzato significa essere parte di una dinamica di potere, e subirla. A livello globale, i soggetti razzializzati sono inseriti in dinamiche economiche e giuridiche che tendono a escluderli dall’accesso a risorse e opportunità. In Italia i principali ambiti in cui assistiamo a dinamiche di razzializzazione sono l’immigrazione, la discriminazione nei confronti di alcune comunità e il trattamento differenziale di cittadini di origine straniera nel sistema giuridico e lavorativo.
Le attiviste e gli attivisti si identificano come soggetti razzializzati quando si rivolgono a noi, persone non razzializzate, come a dire «Ehi, viviamo nel mondo attraverso il vostro sguardo». Sta a noi risalire alla fonte del nostro pensiero e chiederci: ti sto guardando con dignità?
A – Sto imparando che, come altri processi discriminatori, anche la razzializzazione può essere volontaria o involontaria. Per quella volontaria, se pensiamo alla nuova era Trump, difficile trovare ispirazioni positive. Ma basta ricordare com’erano trattati gli italiani meridionali al Nord, non troppo tempo fa (Qui non si affitta ai terroni). Quella involontaria è anche più difficile da riconoscere, perché passa attraverso battute, personaggi, dinamiche sociali molto radicate. Durante una recente campagna per le elezioni regionali lombarde, il presidente Attilio Fontana disse: «Dobbiamo decidere se la nostra razza bianca deve continuare a esistere», suscitando un putiferio che lo costrinse poi a scusarsi, parlando prima di lapsus e poi riconoscendo la “espressione infelice”. Serve ricordare che i lapsus freudiani rappresentano il pensiero profondo? E venendo all’attualità, secondo te l’idea del Ministro dell’Istruzione di reintrodurre a scuola la lettura della Bibbia, in quale dei due tipi si colloca?
S – Comunque, così come si sono fatte, certe idee, si potrebbero disfare. E magari già parlarne è un passo per il cambiamento. Come dice Ghali: Ma qual è casa mia? / Ma qual è casa tua? Dal cielo è uguale, giuro.
A – Credi che ci siano dei contesti in cui il cambiamento, magari anche con fatica, ma?
S – Beh, la scuola, il più importante strumento di integrazione. Lì provenire da famiglie immigrate non è certo più un’eccezione: i bambini, i ragazzi si abituano a stare insieme, non danno peso origini o etnie. Anche lì, comunque, il cambiamento va costantemente incoraggiato e governato.
Nello sport, al netto di certi terribili episodi, la passione alla fine s’impone e non ci interessa che Sinner appartenga a una minoranza o che Jacobs abbia la pelle scura, siamo pronti a tifare per loro con grande entusiasmo e affetto. Ma anche la musica, l’arte in genere sono contesti favorevoli a questo cambiamento.
Consigli
Podcast: Sulla Razza, le parole del razzismo e delle persone razzializzate in Italia, un episodio per volta; Houda, nessuna e centomila, storie di Gen Z di seconda generazione.
Film: Scappa! (Get Out), horror sociale distopico, fa molto riflettere; Il diritto di contare, la storia di Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson, brillanti scienziate afro-americane che fecero andare l’umanità sulla luna.
Social: Stop afrofobia, progetto dell’UE che raccoglie la comunità di italiani afrodiscendenti per parlare di razzismo; Colory.it, piattaforma e community di italiani/italiane di seconda generazione.