Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro Non tutto è come appare di Simona Ruffino, edito da Apogeo.
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Viaggiare in autostrada è rapido e noioso. Efficienza necessaria della linea retta. Ma se si vogliono conoscere i territo- ri bisogna uscire e vagabondare, perdere tempo, fare giri a vuoto. Può capitare di ripercorrere più volte lo stesso tratto, lusso che ci concediamo in vacanza quando esploriamo zone nuove e a guidarci è la gioia della scoperta. Per questo l’erranza e l’errore sono parenti, non solo per etimologia. “L’errore è aperto, evolutivo, affronta l’imprevisto, la novità, l’estraneità di un soggetto che cerca, conosce e pensa”.
Ma in tal senso l’errore non è soltanto quello che ci fa sbagliare strada e ci porta a scoprire bellezze inattese. È an- che il fallimento palese, il travisamento di relazioni di causa ed effetto che abbiamo considerato con superficialità o senza il necessario approfondimento, è la spia rossa che si accende quando, fiduciosi che tutto sarebbe andato bene, abbiamo poi scoperto che il calcolo era sbagliato. A nessuno sfugge che nella storia ci sono stati anche grandi errori assai fecondi. Colombo ha fatto rotta a Occidente cercando le Indie. Trova una terra immensa, è sempre convinto che sia lo stesso continente che si può raggiungere via terra verso Est. Ci vorranno anni di studio, calcoli, esplorazioni, per comprendere e far comprendere al mondo che l’idea iniziale era sbagliata, ma intanto avevamo l’America. È andata più o meno così anche per la penicillina, i korn flakes e il Viagra.
La madre di tutti gli errori è stata la scelta di Eva, l’errore fatale che ha condannato la stirpe di Adamo alla vita mortale fuori dal paradiso terrestre. Eva si è fida- ta del serpente e ha voluto gustare il frutto proibito. Mai errore fu più letteralmente fecondo. Riuscite a immaginare che noia tremenda, tutta l’eternità con Adamo nel paradiso terrestre? Abbiamo guadagnato in un morso la curiosità e la passione, il pianto e la nostalgia, l’orgoglio e la vergogna e tutto il repertorio incredibile delle emozioni umane. Lungi da me disquisire del banale, che sbagliando s’im- para lo sappiamo tutti e ce lo hanno ripetuto per secoli, ma in questa indagine senza metodo offrire l’opportunità all’ovvio di trovare casa è necessario per dare la stessa opportunità a quello che ovvio non è.

La scienza è un monumento agli errori, sono tutti lì in fila sul palcoscenico della storia. Ogni grande scoperta di cui abbiamo beneficiato è stata preceduta da una pletora di tentativi abortiti. Thomas Edison, parlando dell’invenzione della lampadina, disse: “Non ho fallito. Ho semplicemente trovato 10.000 modi che non funzionano”. In queste parole è racchiuso il vero spirito dell’errore: non è un nemico, è un maestro. Ogni errore ci dà un’indicazione, ci guida verso una comprensione più profonda e ci avvicina alla verità. Sir Alexander Fleming, il batteriologo scozzese che ha isolato la penicillina, deve la sua fama a una circostanza fortuita durante un esperimento che altrimenti poteva essere considerato un fallimento. Esperimento e fallimento sono due sinonimi, quasi sempre. Fleming aveva versato una coltura di Staphylococcus in una piastra, era uscito a fare due passi e, al suo ritorno aveva notato che era stata contaminata. Invece di gettare via tutto e ricominciare da capo, osservando con attenzione il misfatto si rese conto che intorno alla muffa c’erano zone in cui i batteri non crescevano. Questo “errore” casuale ha portato alla scoperta del primo antibiotico che ha salvato milioni di vite. Per fortuna.
Tutto il processo scientifico è basato sulla stessa nozione di errore e correzione: si parte sempre da quei risultati che non confermano l’ipotesi di partenza. Ciò porta gli scienziati e i ricercatori a esaminare la teoria criticamente, a riprogettare l’esperimento e sperimentare di nuovo. Ognuno di loro sa che fallirà, ma si tratta di fallire per apprendere. Anche per Darwin ci è voluto molto lavoro sul campo, tra tentativi ed errori, prima di tagliare il traguardo che ci affida la teoria dell’evoluzione. Volendo riportare il discorso alla nostra riflessione, e continuare a cercare di comprendere le motivazioni per cui la semplificazione abbia la meglio sulla complessità, è necessario diventare consapevoli di cosa accade nel nostro cervello e con quale atteggiamento cognitivo affrontiamo l’errore. Quindi, cosa succede neurofisiologicamente quan- do sbagliamo?
Quello che si avvera è una sorta di tempesta improvvisa. L’errore attiva immediatamente una serie di processi cognitivi ed emozionali disorientanti, che però, se ben compresi e gestiti, possono trasformare questo apparente disastro in una fertile opportunità di crescita. Come sempre perdersi è fondamentale. Quando il cervello comprende di aver incontrato un’in- formazione sbagliata entra in uno stato di alta attività, si arrovella come un investigatore che cerca di risolvere un mi- stero. Ogni errore è una pista da seguire, è un indizio che ci guida verso una comprensione più profonda. Il cervello analizza i dati e cerca di decifrare cosa è andato storto e come correggere il percorso. Quando comprende di aver ricevuto informazioni sbagliate investe moltissime energie per gestire questa dissonanza.
L’attenzione selettiva, il ragionamento e la metacognizione sono procedure che giocano ruoli crucia- li. Provo a spiegarlo. La dissonanza cognitiva è il primo processo che si mani- festa quando il cervello rileva un conflitto tra le informazioni precedentemente acquisite e quelle nuove. Questo conflitto crea un disagio cognitivo che ci spinge a risolvere la discrepanza. Per farlo il cervello entra in uno stato di attenzione selettiva, ovvero si focalizza intensamente sulle informazioni che ritiene rilevanti per determinare la veridicità delle nuove informazioni rispetto a quelle vecchie. In seguito a questa selezione il ragionamento diventa prevalente. Il cervello valuta le fonti delle informazioni errate e corrette, analizza le prove disponibili e riconsidera le premesse iniziali.
Questo processo può includere la revisione dei propri pregiudizi e delle credenze preesistenti. È un momento di riorganizzazione cognitiva in cui il cervello cerca di ristabilire una coerenza interna. In questo contesto è essenziale la metacognizione, ossia la capacità di riflettere sui propri processi di pensiero. Costa fatica e un buon grado di consapevolezza, ma ci consente di valutare criticamente il nostro modo di pensare, riconoscendo gli errori e apprendendo da essi. Come si comprende questo processo di riflessione e correzione non è solo utile, è necessario. Gli errori forniscono un feedback immediato, disegnano una cartina sulla quale sono segnati i punti in cui dobbiamo migliorare.
È come se, ogni volta che sbagliamo, il nostro cervello tracciasse una nuova rotta, più precisa e dettagliata, verso la conoscenza. Esaminando il punto di vista cognitivo-emozionale, gli errori possono farci provare una cascata di sentimenti ed emozioni a valenza negativa: vergogna, frustrazione, ansia. Sono come ombre che si allungano su di noi rendendo difficile decodificare e interpretare chiaramente il reale, e che possono rappresentare un ostacolo all’apprendimento. Ma uno stuolo di neurotrasmettitori, come la dopamina, la serotonina, o i GABA, regolano e attivano le funzioni cognitive e controllano quello che proviamo nell’attimo esatto in cui entriamo in contatto con una disconferma.
Cosa voglio dire? Che un esercito di connessioni telecomandate dalla stimolazione sensoriale e dal contesto sociale in cui siamo immersi, è in grado di innescare quella sensazione spiacevolissima di non essere all’altezza del mondo che abitiamo. Errore 404: facciamo crash, andiamo offline, hanno bucato il sistema. Ma quello che di più importante c’è da sapere è che la continua esposizione a informazioni errate, come spesso accade in questi tempi a causa della sovraesposizione mediatica, può influenzare la plasticità del cervello, modificando le connessioni neurali e i patterns di pensiero.
La conseguenza drammatica è che tutto questo può condurre a una riorganizzazione delle nostre strutture cognitive rendendoci maggiormente inclini ad accettare in futuro le informazioni errate. Cioè essere continuamente esposti a informazioni inesatte o mendaci può influire in maniera esponenziale sulla nostra capacità di distinguere il vero dal falso, e può inibire la nostra capacità di valutazione rispetto all’attendibilità delle informazioni stesse. La ripetizione di uno stimolo o di un concetto, a causa degli automatismi insiti nei nostri processi cognitivi, può essere sufficiente a rendere socialmente valida un’affermazione, sebbene questa non corrisponda alla realtà e sia priva di qualsiasi logica. Quindi la mera esposizione è una tecnica efficace per costruire opinioni pubbliche, consensi e successi, sebbene talvolta effimeri?
Il bias nemico del cervello
Il cervello prova a scansare l’errore, come abbiamo visto, ma è un tentativo che molte volte, anzi troppo spesso, risulta inutile. Il 95% delle volte scegliamo attraverso il cervello primitivo, quindi con il sistema uno: per questo le nostre scelte vengono adottate in presenza attiva di bias cognitivi alla continua e affannosa ricerca di un beneficio immediato, di una ricompensa o nell’estenuante esercizio di evitare una perdita. Ma per quale ragione, beneficio, ricompensa, e per- dita condizionano costantemente le nostre azioni e i nostri ragionamenti?
Nella complessa architettura della mente umana il cervello è l’indiscusso maestro dell’analisi costi-benefici: orche- stra le decisioni attraverso una simbiosi intricata di impulsi neuronali e processi chimici. Ogni scelta, ogni azione, si in- treccia nella eterna ricerca di un equilibrio tra ciò che si può guadagnare e ciò che si rischia di perdere. In questo teatro interiore l’amigdala e la corteccia prefrontale recitano ruoli da protagonisti, modulando emozioni e valutazioni razionali. Quando affrontiamo una decisione, il cervello attiva un dialogo frenetico tra le sue diverse aree. La corteccia pre- frontale analizza le opzioni disponibili, pesando le possibili ricompense contro i potenziali rischi. Parallelamente, strutture più profonde come il sistema limbico sussurrano emo- zioni di paura e desiderio, alimentando l’energia che influenza ogni pensiero.
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Questa danza neuromodulatrice assicura che ogni scelta sia il frutto di una elaborazione meticolosa delle esperienze passate e delle predizioni future. L’avversione al rischio e alla perdita nasce come un rituale primordiale, radicato nelle profondità del nostro cervel- lo antico. L’amigdala, quella sentinella del pericolo sempre vigile, si accende con un fervore quasi ancestrale quando percepiamo una potenziale minaccia. Non distingue tra il pericolo fisico e quello psicologico; entrambi attivano una risposta di allarme. Questo ci induce a dare maggiore peso alle perdite rispetto ai guadagni, fenomeno che, nella sua essenza, ha radici evolutive profonde. Il fallimento, la perdita, sono sempre state nemici, mai guide. Contemporaneamente la corteccia prefrontale, il bastione della ragione, cerca di bilanciare queste pulsioni istintive con logica e ponderazione. Qui risiede il nostro senso del futuro, dove calcoliamo le probabilità e pianifichiamo le mosse successive. Tuttavia anche la corteccia prefrontale non è immune dal richiamo degli antichi timori. Spesso si trova a cedere alle intensità emotive suggerite dall’amigdala, dando così vita all’avversione alla perdita. È in questa dinamica che la prospettiva puramente razionale viene offuscata, resa opa- ca dalle sfumature emotive che distorcono il bilancio costibenefici.
Ora, quello che scelgo di sottolineare in questa indagine è che in tutto questo lavorare e valutare, il cervello ha un nemico ingombrante, che, come ho già annunciato, occupa moltissimo spazio: il bias. L’errore sistemico, involontario. Il pilota automatico che ci dirotta il percorso, ci fa prendere la strada sbagliata portandoci dritti in uno di quegli sterrati senza uscita o, peggio ancora, che terminano con un dirupo. Nei labirinti della nostra mente vi sono stanze illuminate dalla razionalità e altre, più oscure, dominate da impressioni e pregiudizi. Sono queste ultime che ospitano i bias, inganni cognitivi che connotano la nostra percezione del mondo, di- storcono la realtà e influenzano le nostre decisioni. Se immagino io stessa di essere una viaggiatrice nel vasto territorio della conoscenza, un’esploratrice che si confronta con affermazioni, esperienze e fatti, mi rendo conto, ben pre- sto, che non tutto ciò che vedo è esattamente come sembra.
Il bias non è, in termini banali, un semplice errore di giudizio; è piuttosto un velo che scherma la vista, ma attraverso cui siamo chiamati e vedere e a interpretare i fatti della nostra esistenza. Alcuni di questi bias, come l’effetto di ancoraggio, ci portano a basarci su informazioni iniziali che influenzano le nostre valutazioni future. Immaginiamo che i media riportino frequentemente che “i giovani d’oggi sono pigri”. Questa frase, ripetuta spesso e presentata come punto di partenza, diventa un’ancora men- tale per molte persone. Anche se ci sono numerosi giovani che lavorano sodo, studiano intensamente e contribuiscono alla società, l’affermazione originale continua a influenzare il giudizio generale. Per portarla più sul pratico: immaginiamo di voler com- prare una macchina usata. Visitiamo un concessionario, e la prima auto che ci mostrano è prezzata a 20.000 euro. Questo valore diventa la nostra “ancora”.
Poi ci mostrano altre auto che costano 18.000 euro, e improvvisamente queste auto sembrano un affare, anche se in realtà potrebbero non valere quella cifra. Il prezzo iniziale di 20.000 euro ha fissato un punto di riferimento mentale che influisce sulla percezione del valore delle altre auto. Capito come funziona? Altri, come il bias di conferma, ci spingono a cercare, interpretare e ricordare le informazioni che confermano le nostre convinzioni preesistenti, ignorando quelle che le contraddicono. In questo modo la nostra mente costruisce una narrazione personalizzata del mondo, narrazione che ci rinchiude in una sorta di bolla cognitiva limitando la nostra capacità di apprendere e crescere. Anche qui faccio un esempio.
Immaginiamo che ci sia una tale Sofia, convinta che una dieta vegetariana sia l’opzione alimentare più salutare. Quando accede ai social media segue principalmente pagine e influencer che promuovono i benefici della dieta vegetariana. Se qualcuno, anche autorevole, pubblica un articolo sui possibili rischi nutrizionali di una dieta senza carne, Sofia tende a scorrere oltre, o a mettere in dubbio quello che legge, perché non si adatta alla sua convinzione. In questo modo Sofia continua ad accumulare prove a favore della sua visione, ignorando punti di vista alternativi e talvolta anche più competenti. Ecco fatto. È in questa maniera che la realtà che riteniamo valida è solo quella che sostiene il nostro punto di vista. Riflettendo su questo, è difficile non considerare i rischi a cui i bias ci espongono. Rappresentano una benevolenza ingiustificabile, una concessione al nostro io più impulsivo, interrompono il flusso armonioso, sebbene faticoso, di una valutazione razionale. In qualche maniera sono dei sabota- tori dell’intelligenza, sebbene io resti dell’opinione che sia possibile riconoscerli, “sgamarli” e imparare a dar loro filo da torcere.
Certo, impossibile é batterli. Anche il contesto sociale in cui ci troviamo gioca un ruo- lo decisivo nella attivazione dei bias. Siamo esseri facilmente influenzabili e tendiamo a conformarci alle norme e al pensiero dominante del nostro gruppo di appartenenza: il conformismo è un fenomeno che trova terreno fertile nel latifondo dei nostri bisogni sociali. Questa dinamica può in- tensificare il bias di gruppo, in cui si assume che le esperienze e le credenze degli altri siano valide in modo indiscriminato. La pressione sociale aggiunge una dimensione emotiva significativa, poiché il nostro desiderio di appartenenza e accettazione può zittire le voci interne che difendono tesi alternative o più critiche. I comportamenti umani condizionati dal conformismo sono stati approfonditamente studiati dalla psicologia sociale. In particolare lo psicologo polacco Solomon Asch ha con- dotto un importante esperimento nel 1951. Intendeva dimostrare che la pressione del gruppo sul singolo può essere tale da modificarne la condotta e persino i giudizi.
Il protocollo prevedeva la partecipazione di 8 persone, di cui 7 erano col- laboratori dello sperimentatore, all’insaputa dell’ottavo partecipante, che era il vero soggetto sperimentale. Il gruppo si riuniva in laboratorio per quello che veniva presentato come un semplice esercizio di discriminazione visiva. Il compito era molto semplice e chiaro: occorreva identificare, tra tre li- nee rappresentate su una scheda, quella che fosse della stessa lunghezza di una linea mostrata su un’altra scheda. Lo sperimentatore, partendo dai complici, chiedeva a ciascuno quale fosse la linea uguale. Dapprima i complici indicavano correttamente la linea giusta, ma alla terza serie di domande iniziavano a rispondere in modo concorde e deliberatamente errato. Il vero soggetto sperimentale, posizio- nato per rispondere ultimo o penultimo, in un’ampia serie di casi finiva per conformarsi alla risposta palesemente errata della maggioranza. In altre parole, tendeva a adeguarsi alle risposte sbagliate dei complici che lo avevano preceduto. Solo il 25% dei soggetti sperimentali resisteva alla pressione del gruppo, rispondendo in accordo con la propria percezio- ne visiva, mentre il 75% si conformava almeno una volta, e un ulteriore 5% aderiva a ogni risposta della maggioranza senza mai opporsi.

Gli esperimenti di Asch hanno aperto la strada a ricerche successive, come quelle di Stanley Milgram, che hanno confermato quanto il gruppo influenzi fortemente sia il comportamento sia i giudizi individuali, anche quando la percezione oggettiva sembra inequivocabile. Di fronte alla pressione del gruppo i soggetti di Asch preferivano fornire una risposta evidentemente sbagliata piuttosto che andare contro l’unanimità. Questa tendenza alla conformità solleva interrogativi importanti sulla natura dell’indipendenza di pensiero. La conformità osservata non sembra derivare tanto da una reale convinzione, quanto da un desiderio di appartenenza e dal bisogno di evitare il conflitto. In questo senso l’esperimento suggerisce che la paura di essere esclusi o giudicati possa prevalere sulla fedeltà alla verità percepita. Il che apre uno spunto di riflessione profondo: se ognuno di noi è così facilmente influenzabile su questioni semplici e oggettive, quali sono le implicazioni di questa tendenza su questioni complesse e di maggiore importanza sociale o etica? Quindi, come è facilmente deducibile, in questi contesti i bias possono avere conseguenze ancor più gravi. Penso a cosa riescono a fare con i pregiudizi razziali o di genere, diretta conseguenza della ruminazione degli errori sistemici del pensiero. Quando ci approcciamo a qualcuno basando- ci su uno stereotipo, diminuisce la nostra disponibilità ad ascoltare e comprendere la sua individualità. Il bias straborda, prende tutto lo spazio, toglie respiro, si appropria, nel vero senso del termine, di tutto quello che potrebbe dare voce a una riflessione più accurata. Ecco perché queste distorsioni sono una delle cause principali per cui la nostra società è un cielo costellato di ingiustizie. La verità è spietata: i bias alimentano stereotipi e alimentano divisioni, erodendo le fondamenta dell’empatia e della comprensione reciproca. I bias sono la materia prima attraverso la quale si edifica il potere.
Chi controlla il potere controlla la verità
In Occidente il fallimento è spesso considerato una macchia indelebile, un segno di incapacità e una testimonianza del nostro valore diminuito. Non è mai semplice confrontarsi con la sensazione di sentirsi inadatti, una sensazione che reputo però necessaria all’evoluzione personale di ogni essere umano. (Quale insana cognizione potrebbe essere quella di considerarsi infallibili!) Non a caso chi non attraversa l’esperienza del fallimento, chi non ne viene travolto, chi non viene mai messo in discussione dal prossimo, chi non si confronta con il dato della sconfitta e del torto, sviluppa una personalità disturbata e disturbante.
Gli errori valgono qualcosa quando insegnano. Sono la moneta utile dell’esperienza. Ce la giochiamo nel passo lungo della vita, resta impigliata nell’agrodolce dei rimpianti, qualche volta. Gli errori dovrebbero ingigantire, adornare di senso nuovo le mattine d’inverno: quando il maestrale sfer- za negli occhi, quando la luce è ombrosa e cupa, quando il sapore sulla bocca è di medicina amara, sulla ferita dovrebbe nascere pelle nuova. L’errore, il fallimento, dovrebbero essere la terra lasciata a maggese su cui poi nasceranno frutti sani, saporiti, utili. Invece no, il successo, il potere, o almeno la loro narrazione stereotipata e patologica, forgia le società capitalistiche ac- compagnandole verso il dirupo in cui il fallimento è il pecca- to originale. La narrazione del successo è una calza smagliata, un’illusione ottica, un lenzuolo ingiallito perché lasciato troppo tempo steso al sole.
Perché? Perché sebbene la narrazione preveda in minima parte, come nella favola antica, la presenza del nemico e della difficoltà, descrive il successo offrendone dei connotati deformi: quelli del risultato facile, dell’intoppo, dell’impedimento, superati con una giravolta. Et voilà. Il successo appare cosa banale, dal rischio minimo e dall’impegno inteso come orpello. Come diceva sempre Vince Lombardi3 nel tentativo di ristabilire una connessione con il dato reale: “Il dizionario è l’unico posto in cui successo viene prima di sudore”. Da quando, molto tempo fa, ho iniziato ad interrogarmi sui concetti di complessità ed errore, sapevo che sarebbe arrivato il momento di scontrarmi – dato che è un argomento che prevede l’enfasi di un corpo a corpo – con il tema della verità. Verità: un termine che sembra definire qualcosa di stabile e immutabile, eppure, nella pratica, si dimostra incredibilmente sfuggente e delicato. Sguscia, straborda dai margini, si sposta, si inclina prima un po’ più di qua e poi dal lato opposto.
Nel nostro mondo complesso e in costante mutamento si agita alle estremità della nostra comprensione, rendendoci testimoni della sua fragilità. Da bambini ci insegnano che è vero semplicemente ciò che è reale, ciò che possiamo toccare e vedere. Ma crescendo ci rendiamo conto che la verità è un concetto che cambia forma a seconda di chi la racconta, a seconda del momento in cui viene raccontata e del potere che la sostiene. È un corpus che può trovare significati divergenti rispetto a quante e quali informazioni si posseggono in merito al dato. La lettura di Foucault mi ha aiutata ad allargare la mia riflessione e a prendere maggiore consapevolezza e confidenza con il tema. Foucault non ci ha offerto una definizione semplice o rassicurante della verità, ma ci invita a esplorarla come un concetto storico e sociale, profondamente intrecciato con il potere e il discorso.
Sostanzialmente: la verità non è qualcosa di fisso o di universale, ma piuttosto una costruzione che varia a seconda del contesto storico e sociale. Ciò che consideriamo vero in un certo periodo della storia non è necessariamente vero in un altro, e questo dipende dalle pratiche discorsive, dalle istituzioni e dalle relazioni di potere in gioco. Mi ha fatto pensare a come certe “verità” accettate oggi potrebbero essere completamente messe in discussione domani. D’altra parte noi tutti siamo testimoni di un ag- ghiacciante periodo di revisionismo storico, in cui persino il fascismo non solo torna di moda, ma diventa nuovamente modello, riferimento. Foucault parla di “regime di verità”, un concetto che, a suo tempo, mi ha aperto gli occhi su come la verità sia con- trollata e manipolata. Ogni società ha il suo regime di verità, un sistema che stabilisce cosa può essere considerato vero e chi ha il diritto di definirlo. Da qui la conseguente conclusione che certe istituzioni come la scienza, la medicina, o persino l’educazione e la comunicazione, abbiano il potere di decidere quali verità sono accettabili e quali no. Come se la verità fosse una moneta, il cui valore è stabilito da chi la conia. Ma ciò che del suo pensiero, secondo me, va conservato con maggiore cura è il concetto di “discorso”, pratica che per Foucault rappresenta il metodo attraverso cui si producono, proprio come un manufatto, conoscenza e verità. Il potere, in questa visione, non è qualcosa che si possiede, ma qualcosa che si esercita attraverso il discorso.
Chi lo controlla controlla la verità. Quando per la prima volta ho incontrato questa teoria ero poco più che una giovane ragazza. Ricordo di aver scorso più volte le righe che la illustravano cambiando la mia postura sulla sedia come faccio sempre quando mi sento illuminata da una consapevolezza. Lì, ho iniziato a riconsiderare il ruolo dei media, della politica e di tutte quelle istituzioni che contribuiscono a plasmare la nostra percezione della realtà quotidiana. La verità non è mai neutrale. È sempre intrecciata con il potere, con l’interesse di chi controlla il discorso.
Questo mi ha portato ad assumere una posizione maggiormente critica nei confronti delle informazioni che mi vengono presentate ogni giorno, a chiedermi sempre: chi ha interesse a farmi credere questa verità? Quali altre voci sono state silenziate? Poi ci sono le altre domande da porsi: perché la verità può essere considerata assoluta o soggettiva? Quali sono i meccanismi cognitivi che collegano l’interpretazione di ciò che riteniamo vero alla nostra esperienza personale? Ci arriverò. Intanto teniamo a mente che nell’inevitabile e ingenua ricerca della verità, l’errore ci scorta come un compagno di viaggio molesto ma inevitabile. Voglio dire: se tutti noi fossimo consapevoli che l’errore cognitivo è uno dei meccanismi principali che determinano le nostre scelte, forse saremmo maggiormente in grado di arginare l’effetto degli stereotipi, dei pregiudizi, delle credenze che inquinano il nostro sentire.