Ci sono incontri, storie, persone e libri che agiscono come apriscatole: tolgono coperchi, aprono la mente. Poi ci scavano dentro, e dentro ci restano. Eppur ci siamo, l’ultimo saggio di Alexa Pantanella, ha questo effetto e alla fine, dopo averti portato dentro un arsenale di dati, di analisi e argomentazioni, ti convince che c’è parecchio che non torna nell’idea che abbiamo costruito sulla disabilità, a partire dai numeri reali e, perciò, da quanto sia grande – è grande, lo anticipiamo, ma davvero tanto rispetto al poco che si crede – questa parte di mondo.
Eccolo, il numero inaspettato: tra un quarto e un terzo della popolazione vive con una disabilità. L’autrice, che è esperta di linguaggio ed è fondatrice di D&I Speaking, cambia pure le carte linguistiche in tavola, e per tutto il saggio – che ha sottotitolato Narrative e rappresentazioni delle persone con disabilità (DFG Lab) – sostituisce la locuzione persone disabili con persone disabilitate, il che – vedremo con lei – genera un ribaltamento della narrazione capace di incoraggiare chiunque di noi a entrare in campo e fare una sua considerevole parte.
Alexa, nel saggio riporti unastima numerica che lascia a bocca aperta. Perché a parte rare eccezioni, vedi la Gran Bretagna, non si è mai misurato in maniera seria un mondo che è enorme?
In primo luogo, perché non è facile dare una definizione univoca della disabilità, perché la stessa contempla un ampio spettro di condizioni, che per lo più si presentano in forme non visibili. L’Istat stesso, in alcuni documenti sul tema, dichiara di riscontrare difficoltà con la definizione e la conseguente misurazione dell’insieme di queste condizioni. Secondo l’Istituto di statistica le persone che, in Italia, convivono con una disabilità sono il 4,9%: ma l’Istat considera solo le forme più gravi e, in ogni caso, il dato scaturisce da un’autovalutazione delle persone intervistate. Contemplando le “limitazioni non gravi”, a quel 5% si aggiunge un nuovo 16,5% – anche questo frutto di autovalutazione – per un totale di 21,4%. Equivale a circa 12 milioni e 700 mila persone che convivono con qualche forma di disabilità. Detto questo, si tratta di una fonte. Mancano strumenti statistici condivisi che diano una misura chiara ed esaustiva e sanino una volta per tutte le enormi discrepanze. In primo luogo Istat, Inail, Inps dovrebbero trovare un accordo su cosa si intenda per disabilità e su come vada misurata, perché l’assenza di dati condivisi causa una continua e grave sottovalutazione della situazione in cui si trovano molte persone.
Chi non è contato non esiste, con conseguenze tragiche sulle vite delle persone: il tuo libro, che peraltro è un libro corale perché raccoglie le voci di persone che vivono con una disabilità, ne costruisce un’efficace dimostrazione.
La mancanza di dati comporta assenza di conoscenza. Comporta per noi non vedere, non sapere, non porci la questione. E, dunque, non trovare soluzioni. Chi ha una disabilità o una neurodivergenza avverte questa assenza in modo fortissimo: se tu non mi conosci e non mi riconosci, io non esisto nei tuoi pensieri, non esisto nelle tue decisioni. Quando ho iniziato a indagare per preparare il libro, non pensavo di imbattermi in una sottovalutazione tanto ingente e impattante. Le stesse aziende sono spesso ignare del reale numero di persone con disabilità che lavorano per loro: quando, e lo fanno magari inorgogliendosi, dichiarano che il 4-5% ha una qualche forma di disabilità, compiono una svista madornale, considerato che per l’OMS le persone disabili sono il 16% degli abitanti del pianeta.
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Peraltro, molte delle disabilità o disabilitazioni, come tu scrivi nel tuo saggio, non sono visibili. Di chi parliamo quando parliamo di persone disabili invisibili?
L’80-90% delle persone con disabilità ha una disabilità che non si vede. Per esempio nel caso di fenomeni legati alla salute mentale, come le forme di depressione, il disturbo bipolare, i disturbi alimentari, e delle disabilità intellettive. Oppure nel caso di chi non sente e porta un impianto cocleare nascosto dai capelli, di chi è ipovedente, di chi ha l’epilessia o malformazioni cardiache… La narrazione della disabilità, costruita su schematismi e stereotipi, ci induce a riconoscerla in poche forme ricorrenti, perlopiù fisiche, vedi la Sindrome di Down o le disabilità di tipo motorio che richiedono l’utilizzo di una sedia a rotelle. Al contrario, la disabilità ha molteplici forme e molte di queste sfuggono allo sguardo. Alla presentazione di Eppur ci siamo a Roma, durante Più Libri, Più Liberi, è intervenuta insieme a me una persona ipovedente, che ha raccontato delle complessità con cui convive e che sfuggono alla stragrande maggioranza delle persone. Inoltre, una ricerca internazionale mostra chiaramente che le persone con disabilità non visibili in 8 casi su 10 preferiscono non parlare della propria condizione sui luoghi di lavoro, per timore dello stigma ancora associato alle disabilità.
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Nel tuo saggio proponi di usare la locuzione persone disabilitate al posto di persone disabili: questa proposta non solo scardina consuetudini linguistiche molto radicate, ma rivoluziona nel profondo l’idea della disabilità – o disabilitazione – per come è stata vissuta fino a ora.
Il termine si ispira ai Disability Studies condotti in Italia, una corrente di studio critica che guarda al ruolo del sistema nello sviluppo della disabilità. Tale approccio pone l’attenzione sul potere “disabilitante“ che può avere il contesto in cui le persone vivono: l’esempio più lampante è la mancanza di rampe o accessi facilitati nelle strutture, che pongono le persone con ridotta mobilità in una condizione di disabilitazione, evitabile quando, invece, gli accessi facilitati ci sono. Esistono forme sistemiche di disabilitazione di tipo fisico, legislativo, culturale, digitale… Utilizzando l’espressione “persone disabilitate” si entra in un processo dinamico, in cui lo sguardo viene spostato dalle limitazioni individuali della persona alle responsabilità collettive, incoraggiando chiunque di noi a fare attivamente la propria parte per rendere l’ambiente più inclusivo e meno limitante.
A proposito di responsabilità collettiva, nel libro argomenti con dati ed evidenze scientifiche quanto la percezione che abbiamo di questi fenomeni sia condizionata e plasmata dalla narrazione, molto spesso stereotipata e non realistica, che ne fa il cinema, il giornalismo, la televisione, la pubblicità.
Chiunque di noi è veicolo, anche inconsapevole, di narrazioni e sguardi che contribuiscono a plasmare l’idea che si ha delle persone, con o senza disabilità, e il ricorso al modello stereotipato, al retaggio discriminante, al sentito dire approssimativo è parte di tutte le costruzioni collettive di conoscenza. Detto questo, il mondo della comunicazione ha una responsabilità enorme nella costruzione dell’immaginario collettivo e il momento è ormai maturo per aprirsi a costruzioni narrative non solo eque, ma finalmente anche autentiche e realistiche, che raccontino le cose per quello che sono, nell’attualità e nella verità, costruzioni che nascano anche dal dialogo con persone disabilitate o che siano scritte e/o interpretate direttamente dalle persone stesse. Per chiudere con maggior ottimismo, si intravvedono dei segnali che vanno nella giusta direzione nel mondo delle serie TV e del cinema, soprattutto all’estero, e che fanno sperare che la via del cambiamento delle narrative e rappresentazioni non sia così impossibile, né lontana.