Facebook non sarà più, probabilmente, il «nemico del popolo«. Così Donald Trump a marzo 2024 definiva la piattaforma online contribuendo a far crollare il valore in Borsa della società Meta. Il rapporto tra Meta e Donald Trump era teso almeno dal 2016 quando Mark Zuckerberg aveva introdotto sulle sue piattaforme Facebook e Instagram un programma di fact-checking basato su organizzazioni indipendenti esterne, incaricate di valutare i post potenzialmente falsi o fuorvianti e, se necessario, etichettarli come inaccurati, fornendo agli utenti informazioni aggiuntive. Tensione che si era acuita poi con il Trump deplatforming quando, dopo i fatti di Capitol Hill, l’ormai ex Presidente USA era stato sospeso da Facebook per i suoi post ritenuti problematici.
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Zuckerberg e la svolta culturale
Ora Meta ha annunciato l’intenzione di sostituire i fact-checker con un sistema di “Community Notes” basato sugli utenti e in un video online Zuckerberg ha commentato che nelle attività di verifica introdotte nel 2016 «i fact checker sono stati troppo politicamente di parte e hanno distrutto più fiducia di quanta ne abbiano creata», chiosando che «le recenti elezioni sembrano anche un punto di svolta culturale verso una nuova priorità della parola».
Il video in cui Mark Zuckerberg annuncia la fine del fact-cheking sui social Meta
Siamo di fronte ad una vera e propria inversione di tendenza che, se da una parte, è una mossa che sul piano politico vuole difendere gli interessi dell’azienda dal nuovo prossimo Presidente degli Stati Uniti, dall’altra segna un allineamento culturale con una realtà digitale che dietro alla libertà di espressione apre a un laissez faire problematico.
Il futuro sui social
La scelta di Meta riflette infatti un trend più ampio nel panorama digitale – questa la vera «svolta culturale» – in cui le piattaforme si ritraggono dal ruolo di arbitri della verità per abbracciare un modello in cui “tutto vale”. Dietro la retorica della libertà di parola, si nasconde il rischio di una legittimazione di ambienti che facilitano la diffusione di disinformazione, la propagazione di teorie del complotto e l’escalation della polarizzazione politica. Un prezzo che Zuckerberg, nella sua retorica iperliberista, ritiene valga la pena pagare per garantire la libertà di parola.
La sostituzione dei fact-checker con un sistema di “Community Notes” – utilizzato anche sulla piattaforma X del trumpiano Elon Musk che, non a caso, ha commentato: «È fantastico» – solleva molteplici interrogativi. Come si garantisce la neutralità e la qualità delle valutazioni se queste sono lasciate agli utenti, potenzialmente portatori degli stessi bias e delle stesse ideologie che si intende contrastare? Questo sistema rischia di essere inefficace proprio perché rinuncia a un controllo strutturato e professionale dei contenuti e non può far altro che alimentare una spirale tossica tipica dei contesti di post-verità in cui il vero e il falso si contrappongono come posizioni equivalenti e che alimentano discorsi polarizzati.
Il rischio della neutralità passiva
La decisione di Meta potrebbe avere implicazioni significative sul panorama politico globale. Piattaforme come Facebook e Instagram giocano un ruolo cruciale nella formazione dell’opinione pubblica e, rinunciando a un controllo efficace dei contenuti – per quanto problematico –, rischiano di diventare terreno fertile per campagne di disinformazione organizzate e mirate. In un’epoca in cui le elezioni sono sempre più influenzate dai social media, il ritorno alla “neutralità passiva” potrebbe favorire la diffusione di retoriche estremiste e di quelle forme di radicalizzazioni che rappresentano pericolosi granelli di sabbia nella macchina democratica.
Se da una parte Meta allenta i freni e altre piattaforme come X sembrano percorrere una strada simile, eliminando controlli stringenti sui contenuti in nome di un assolutismo della libertà di espressione, piattaforme come TikTok o YouTube hanno (per ora) mantenuto o rafforzato i loro programmi di moderazione, consapevoli dei danni che la disinformazione può arrecare alla società.
Che fanno gli altri?
Questo approccio divergente può essere attribuito a diverse motivazioni. Da un lato, piattaforme come TikTok o YouTube operano in contesti in cui le pressioni normative e reputazionali rimangono particolarmente forti. Gli scandali legati alla disinformazione – come la diffusione di fake news durante le elezioni o la circolazione di contenuti dannosi per i più giovani – hanno già generato interventi legislativi in molti Paesi, spingendo queste piattaforme a rafforzare le proprie politiche per evitare multe, restrizioni o persino il rischio di essere bloccate in mercati chiave.
Dall’altro, mantenere programmi di moderazione stringenti è anche una strategia per preservare la fiducia degli utenti e quella degli inserzionisti. In un ecosistema in cui la monetizzazione dipende dalla presenza di un ambiente relativamente sicuro per la pubblicità, le piattaforme devono bilanciare l’attrattività per gli utenti con la tutela del brand safety, ossia la garanzia che i contenuti non compromettano la reputazione delle aziende che vi investono.
Che rischi corre Meta?
Infine, alcune piattaforme come YouTube, che si basano fortemente su algoritmi di raccomandazione, hanno imparato che la disinformazione virale può avere effetti boomerang: se da un lato aumenta temporaneamente l’engagement, dall’altro può alienare gli utenti più consapevoli e portare a controversie difficili da gestire. In questo senso, un controllo più rigoroso non è solo una questione etica, ma anche una scelta strategica per garantire la sostenibilità a lungo termine della piattaforma.
Meta e altre piattaforme che scelgono di abbandonare un approccio più responsabile potrebbero dunque trovarsi presto a fronteggiare non solo un’opinione pubblica sempre più polarizzata, ma anche un ritorno di fiamma sul piano regolatorio e commerciale. La dichiarazione di Zuckerberg, secondo cui «quello che è iniziato come un movimento per essere più inclusivi è stato sempre più utilizzato per mettere a tacere le opinioni ed escludere le persone con idee diverse», mette in luce la profonda ambiguità di questa inversione di tendenza. Da un lato, essa si presenta come una risposta a un’esigenza di pluralismo e di libertà di espressione, dall’altro, sembra ignorare i rischi insiti in un approccio che riduce al minimo il controllo sulla qualità e l’accuratezza dei contenuti.
In un’epoca in cui la disinformazione e le teorie del complotto non sono solo espressioni di idee diverse (o “verità alternative” come piace dire nel linguaggio trumpiano), ma strumenti deliberati di manipolazione e divisione sociale, il concetto di “inclusività” rischia di trasformarsi in un pretesto per abdicare alla responsabilità. Non si tratta di “mettere a tacere” le opinioni, ma di riconoscere che esistono confini tra il diritto a esprimersi e il dovere di salvaguardare la sfera pubblica da distorsioni che compromettono la democrazia e il benessere collettivo.