Dal 30 giugno 2024 non si può più usare la parola disabile negli atti della pubblica amministrazione, così come l’espressione diversamente abile, affetto da disabilità, persona handicappata: una nuova legge (la 227/2021 e il decreto legislativo 62/2024) vieta d’ora in poi questi termini, a vantaggio di persona con disabilità. Anche handicap è definitivamente bandito: dovremo parlare di condizione di disabilità. Si tratta di un’innovazione linguistica che Angelica Giambelluca, giornalista professionista founder del magazine su medicina e disabilità Persone – in cui dall’esordio ha deciso di superare la definizione di paziente a favore di persona, appunto – definisce una rivoluzione epocale per la società.
Non più disabile, ma persona con disabilità. Ai più queste innovazioni del linguaggio possono sembrare variazioni di scarsa influenza. Perché, al contrario, questa riforma è così rilevante?
Definire un individuo disabile, epilettico, paraplegico non è in sé sbagliato perché, effettivamente, quella è la sua condizione, ma noi lo stiamo definendo come se lui fosse solo questo. Una persona che ha l’epilessia non ha soltanto l’epilessia: è una delle sue caratteristiche, quella che probabilmente segna e influenza di più la sua vita, ma non è l’unica. Quella persona è capace, chessò, di cantare, di correre, sa fare mille altre cose. Ha, insomma, diverse abilità: è questo il salto cognitivo importante che dobbiamo fare. Una volta che frequenti questo mondo, che raccogli le storie delle persone, che sono varie, ricche, potenti, non ti viene neanche in mente di definirle disabili.
Del resto, questa riforma parte da una concezione rivoluzionaria della disabilità. È così?
Si tratta di un processo iniziato con l’OMS, che ha cambiato nel corso degli anni la definizione di disabilità. Inizialmente, veniva definita come una menomazione, incentrata com’era sulla limitazione fisica, mentale, cognitiva dell’individuo; da qui le definizioni di handicappato, disabile, diversamente abile, che poi non significa nulla. La stessa OMS nell’ultimo aggiornamento della Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute del 2020 ha fatto suo il modello bio-psico-sociale che considera la disabilità come il risultato dell’interazione tra le condizioni di salute di una persona e l’ambiente in cui vive: la disabilità, dunque, si acuisce o diminuisce a seconda che questa interazione avvenga oppure no, che la persona possa o meno integrarsi, realizzarsi come individuo. E questo è un concetto rivoluzionario, che ci porta ai giorni nostri, con questa riforma, che impone un cambiamento che, di fatto, si cominciava a vedere già da qualche anno.
Il fatto che il cambio di linguaggio arrivi da un’imposizione di legge può fare storcere il naso a chi ritiene che il linguaggio debba, invece, nascere dal basso, ovvero evolvere naturalmente, accompagnando i cambiamenti della società.
Mi viene da rispondere che siamo talmente indietro nell’approccio alla disabilità che ci è voluta questa forzatura di legge per imporre un cambio di passo, almeno nei documenti pubblici, perché naturalmente questo obbligo non riguarda affatto le dimensioni private. Insomma, si tratta, sì, di una forzatura, ma io credo necessaria. La speranza è che, a cascata, contamini il linguaggio quotidiano, che rispetto alla narrazione della disabilità è spesso molto scadente.
Non è con le parole che si risolvono le cose: è un’altra obiezione comune. Cosa rispondere a chi svaluta o sottostima l’impatto del linguaggio?
A me spesso scrivono: non contano le parole, ci vuole un cambiamento culturale. Si nota la contraddizione? Se abbiamo bisogno di un cambiamento culturale, da dove partiamo se non dalle parole, da come ci esprimiamo, da come ci rivolgiamo agli altri? Le parole sono l’inizio, sono il primo passo. Certamente non sono l’unico, ma è usando la parola giusta che cambiamo il nostro modo di pensare, di guardare, di concettualizzare. La sentiamo la differenza tra pronunciare le parole disabile e persona con disabilità? Lo si sente il corto circuito nella testa? Si capisce lo stacco? La persona con disabilità ha quello che le serve per costruirsi una vita, il disabile no.
A volte, si ha paura di accostare alla parola disabilità parole della quotidianità di tutti, vedi sessualità.
Ho scritto articoli sulla sessualità delle persone con disabilità e molti nei commenti mi hanno riso in faccia, dicendo che è l’ultima cosa a cui una persona con disabilità pensa. Non è affatto così. Un’altra parola che si fa fatica ad associare a una persona con disabilità è indipendenza. Avere una casa propria, fidanzarsi: purtroppo si fa ancora molta fatica ad associarli, nell’immaginario, a una persona che ha disabilità importanti.
Le persone lamentano di non riuscire sempre a capire quali parole usare quando entrano in relazione con una persona con disabilità. Imbarazzo, confusione, incertezza, paura di offendere sono condizioni vissute da molti. Che approccio suggerire per uscire da questi stalli?
Normalizzare! Naturalmente ci vuole l’accortezza di capire che tipo di disabilità sia in campo ma, approfondito questo, dobbiamo agire con naturalezza, persino scherzando. Faremo una gaffe? Vorrà dire che ci scuseremo. L’errore è evitare di interagire, non esporsi per paura di sbagliare, ritenere che ci siano argomenti sì e argomenti no, fare finta che le persone siano invisibili, che proprio non esistono.
Linguaggio a parte, la forza di questa riforma è un cambio di approccio ad ampio raggio alla disabilità: è una riforma che, a leggerla, ci si emoziona, hai scritto. Si riuscirà a metterla a terra?
Questa riforma rovescia completamente l’approccio: se fino ad oggi era la persona con disabilità a dover darsi da fare e correre da un ufficio all’altro per avere assistenza, per avere persino un semplice certificato, adesso devono essere i vari enti a dover agire per realizzare il Progetto di vita della persona con disabilità. Il cuore della riforma è, infatti, il Progetto di vita. Oltre alla valutazione di base per accertare la disabilità, viene fatta una valutazione multidimensionale per comprendere le capacità della persona, come funziona nei suoi contesti di vita, quali ostacoli e facilitatori sono presenti negli ambienti in cui agisce, quali sono i suoi obiettivi di vita sulla base dei suoi desideri e delle sue aspettative. A quel punto tutti i professionisti deputati si riuniscono intorno a un tavolo per definire i processi che, con un budget dedicato, sono utili a realizzare quegli obiettivi. È uno dei pilastri: a leggerla per intero, questa riforma, ci si emoziona per davvero, ma no, non sarà di facile realizzazione.
Perché un magazine che si chiama Persone? E cosa cambia quando le persone diventano il centro, la ragione, l’obiettivo delle azioni dei decisori e protagoniste nello sguardo di tutti noi?
Con Persone voglio raccontare giornalisticamente la disabilità attraverso le storie delle persone, che sono storie incredibili, e di quanti si prendono cura di loro, con l’obiettivo di metterne in luce l’impatto sociale. Cosa cambia quando le persone – non i malati, non i pazienti – diventano il centro di tutto? Ce lo dice questa legge: se non si guarda alla disabilità, ma alla persona è a lei che si chiede – e per prima cosa – come desidera vivere la sua vita e di cosa ha bisogno per realizzare il suo desiderio. In caso contrario, continuerà a subire tutte le decisioni prese sulla sua vita dagli altri.
Photo credit: Angelica Giambelluca (Facebook)