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In Afghanistan, alle donne è stato rubato il diritto fondamentale di muoversi, di mostrarsi, di esprimersi, di disporre di se stesse. Alle donne afghane è vietato dalla legge lavorare, anche per fare attività umanitaria, è vietato studiare dopo la scuola elementare, uscire di casa a meno che un uomo di famiglia non le accompagni, fermarsi in un parco pubblico. Proibito loro anche cantare, pregare a voce alta. Dal ritorno dei Talebani, quattro anni fa, uno sciame di divieti ha colpito la vita pubblica delle persone, e di questi la quasi totalità ha colpito le donne. Perfino l’abbigliamento nello spazio privato è limitato e regolamentato per legge.

In campo c’è anche la Premio Nobel per la Pace 2023 

Oggi un movimento di giuristi, giuriste, persone attiviste e organizzazioni internazionali per i diritti umani si sono uniti alle donne coraggiose e resistenti che in Afghanistan e in Iran, mettendo a rischio la propria libertà e la vita, stanno chiedendo che questa oppressione istituzionalizzata sia riconosciuta nel diritto internazionale come apartheid di genere e punita come crimine contro l’umanità, al pari di quanto è avvenuto con l’apartheid etnica in Sudafrica. 

Dal carcere di Evin, a Teheran, dove è rinchiusa, lo ha chiesto all’ONU anche l’ingegnera, giornalista, attivista e Premio Nobel per la Pace 2023  Narges Mohammadi, in una lettera fiume che ha fatto uscire dal carcere. «Sistematicamente e deliberatamente, l’Iran ha imposto la sottomissione delle donne con tutti gli strumenti e i poteri dello Stato, in particolare tramite le leggi, al fine di perpetuare la negazione dei diritti umani delle donne», scrive Mohammadi, facendo seguire l’elenco delle proibizioni imposte alle donne per legge, grazie alla quale lo Stato agisce nel pieno della legalità. Il comportamento discriminatorio, aggiunge la Premio Nobel iraniana, ricorre spesso insieme al maltrattamento fisico, sistematicamente impiegato, come le 74 frustate inflitte a chi non indossa l’hijab e come «le aggressioni sessuali, le molestie e i maltrattamenti inflitti alle donne incarcerate, le percosse e le violenze – spesso fatali – nei centri di detenzione». E conclude la lettera: «È sufficiente modificare la bozza dei crimini contro l’umanità delle Nazioni Unite per includervi l’apartheid sessuale e di genere. Non è un percorso difficile ed è realizzabile. Le donne in Iran e Afghanistan aspettano l’attenzione immediata e l’azione dell’Onu per compiere questo passo irrinunciabile». 

L’apartheid di genere un crimine contro l’umanità

La sesta commissione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che si è riunita poche settimane fa, sta accelerando il processo e potrebbe effettivamente includere l’apartheid di genere nel processo di revisione del Trattato sui crimini contro l’umanità, le cui negoziazioni potrebbero concludersi tra il 2028 e il 2029. Diverse organizzazioni che difendono i diritti umani stanno articolando proposte per codificare questa forma di apartheid, un pugno di Paesi ha già approvato la sua inclusione nel trattato. Intanto, un gruppo di parlamentari inglesi e la International Bar Association’s Human Rights Institute (IBAHRI) ha dato il via a un’inchiesta sulla situazione delle ragazze e delle donne in Afghanistan e in Iran, rispetto all’esistente definizione di crimine e a quella, eventuale, di apartheid di genere, la prima al mondo di questo tipo. Le storie delle ragazze delle donne afgane e iraniane sono state raccolte attraverso una piattaforma. Oggi i risultati di The Gender Apartheid Inquiry misurano effettivamente Paesi in cui le «forme di discriminazione sono istituzionalizzate, poiché derivano da politiche e pratiche messe in atto dalle autorità. Il quadro giuridico esistente non riesce a cogliere appieno la natura di questa situazione e, a sua volta, a garantire un’adeguata responsabilità agli autori del reato. Alla luce di ciò, indagare la fattibilità di riconoscere formalmente il reato di apartheid di genere e codificarlo è diventato imperativo”. E poi: «Questa grave questione può essere descritta solo come crimini di apartheid: sostituendo razza con genere, diventa evidente che la definizione legale riflette la situazione delle donne e delle ragazze in Afghanista e Iran». 

In che modo l’apartheid di genere aiuterebbe concretamente le ragazze e le donne? 

La campagna internazionale EndGenderApartheid è la più impattante nel chiedere l’intervento diretto dei Governi. Supportata, tra le altre, dall’avvocata iraniana Shirin Ebadi, Premio Nobel per la Pace 2003, afferma che «le situazioni nella Repubblica islamica dell’Iran e sotto i talebani in Afghanistan non sono semplicemente casi di discriminazione di genere. Piuttosto, questi sistemi stanno perpetuando una guerra più estrema, sistematica e strutturale contro le donne, progettata per disumanizzarle e reprimerle allo scopo di consolidare il potere». 

La campagna sostiene che riconoscere l’apartheid di genere come un crimine in sé rafforzerebbe gli strumenti disponibili per porre fine ai regimi di apartheid e aiuterebbe a trsmettere la gravità dei danni provocati da questi e a catalizzare l’azione per fermarli. Nello specifico, «se l’apartheid di genere diventasse un termine legalmente riconoscibile, avremmo percorsi giudiziari per i leader che stanno mettendo in atto queste atrocità. Creeremo anche un nuovo precedente storico secondo cui questo comportamento non è tollerato dalla comunità internazionale. L’apartheid non è solo un crimine, ma è anche soggetto alla giurisdizione universale, che impone agli Stati l’obbligo di indagare e perseguire i presunti autori quando sono presenti nel Paese».

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