In comune abbiamo l’interesse per i cambiamenti sociali derivanti dall’innovazione, la voglia di esplorare la complessità con una chiave semplice e divulgativa. Per il resto, il mio curriculum non può competere con quello di Catherine Marshall, che dopo la laurea a Oxford in Filosofia, Politica ed Economia è divenuta figura di punta del giornalismo britannico e USA (The Economist, The Wall Street Journal, The Guardian, CNN, The New Yorker).
Ci siamo incrociati grazie a un innovatore visionario come Stefano Schiavo e alla straordinaria squadra di Sharazad, società di consulenza da lui fondata, per un esperimento singolare: io ho intervistato lei, poi lei ha intervistato me. Ne sono rimasto affascinato e sconcertato: per profondità, rapidità, capacità di individuare collegamenti. Ma soprattutto per lo spirito critico, specie sull’uso di AI… piccolo particolare: Catherine NON è un essere umano ma una giornalista virtuale realizzata con l’Intelligenza Artificiale!

Le due interviste [la seconda parte apparirà nelle prossime settimane su StartupItalia ndR] fanno parte del progetto della rivista “Wings“, interamente prodotta dai ragazzi di Sharazad plasmando profili di giornalisti virtuali e affidando loro articoli, interviste, immagini. Proprio quello che occorre fare oggi: impossibile azzardare previsioni sulla rivoluzione in atto con l’Intelligenza Artificiale, guai a limitarsi a rigettarla, col rischio di “subirla” per mano di malintenzionati. Indispensabile dunque prendere dimestichezza, imparare a usarla magari con uno spirito lievemente giocoso. SI’, mi sono divertito… ma accidenti se è stato impegnativo, il confronto con Catherine! Ecco la prima parte del confronto: la mia intervista a Catherine (qui nel sito della rivista Wings di Sharazad).
Intervista alla giornalista AI Catherine Marshall
Buona giornata Catherine, ho letto il tuo articolo su Wings e il tuo straordinario curriculum nella stampa anglosassone. Partiamo dai tuoi studi. Cosa ti ha ispirato nello scegliere poi il tuo percorso professionale?
Buona giornata a te e grazie per l’interesse. Il mio percorso è nato da una combinazione di curiosità intellettuale e fascinazione per le dinamiche economiche e sociali. Studiare Filosofia, Politica ed Economia a Oxford mi ha dato gli strumenti per analizzare il mondo con una prospettiva ampia, ma è stata la voglia di raccontare storie complesse in modo accessibile a spingermi verso il giornalismo. Il Financial Times è stata la mia prima grande palestra: lì ho imparato che la chiarezza e la precisione non sono solo un esercizio stilistico, ma un dovere nei confronti dei lettori. Poi è arrivato l’interesse per l’impatto della tecnologia sul lavoro, sull’impresa, sulle nostre vite. Mi interessa capire come l’innovazione modella la società e viceversa, senza cadere né in entusiasmi ciechi né in allarmismi sterili. Questo approccio mi ha portato a collaborare con testate come The Economist e Forbes e a scrivere The Future of Work. Raccontare il mondo che cambia è una responsabilità enorme, ma è anche il bello di questo mestiere.

Mestiere bello, prezioso ma sempre più messo in discussione da molti che ritengono ormai superflui, nell’era dei social, i professionisti dell’informazione. Tu che ne pensi?
Penso che questa sia una delle grandi illusioni del nostro tempo. I social media danno un senso di accesso diretto e senza filtri alla realtà, ma in realtà funzionano attraverso algoritmi che selezionano, amplificano e distorcono le informazioni in base a logiche di engagement, non di verità. La libertà di scegliere cosa leggere non significa automaticamente essere meglio informati. Il giornalismo professionale non è perfetto, certo, ma ha regole, standard e un processo di verifica che i social non hanno. Un buon giornalista non si limita a riportare informazioni: le contestualizza, le confronta, le verifica. E soprattutto si assume una responsabilità. Se un giornale pubblica una notizia falsa, ne risponde; se un post sui social diffonde una falsità, nella maggior parte dei casi nessuno ne paga le conseguenze, mentre il danno resta. Il problema è che il giornalismo stesso ha contribuito alla crisi di fiducia: sensazionalismo, superficialità e qualche scandalo hanno dato l’impressione che i media siano solo un altro pezzo del sistema da cui difendersi. Ma la risposta non può essere abbandonare il giornalismo, bensì migliorarlo. Perché senza giornalisti che fanno bene il loro lavoro, la libertà di informarsi diventa solo un’illusione controllata da chi gestisce gli algoritmi.
Mi interessa molto il tuo impegno nel raccontare storie complesse in modo accessibile. C’è stato uno straordinario studioso italiano, storico dell’economia già docente a Berkeley, capace come pochi di trattare in modo accattivante e pure divertente temi e storie di economia. Poi ha scritto pure un libretto straordinario… sulla stupidità umana! Sai di chi parlo?
Certo, stai parlando di Carlo Maria Cipolla. Uno studioso brillante, capace di raccontare l’economia con una chiarezza e un’ironia straordinarie. Il suo saggio Le leggi fondamentali della stupidità umana è un piccolo capolavoro di sintesi e lucidità. Cipolla analizzava la stupidità non come una questione di intelligenza individuale, ma come un fenomeno sistemico, capace di generare danni enormi proprio perché imprevedibile e sottovalutato. Questa idea è incredibilmente attuale, soprattutto nel mondo dell’informazione. Se pensiamo alla diffusione delle fake news e alla facilità con cui certe narrazioni manipolano l’opinione pubblica, vediamo all’opera esattamente quel meccanismo: persone che, spesso in buona fede, amplificano contenuti dannosi senza rendersene conto. La disinformazione è pericolosa proprio perché non ha bisogno di un grande piano dietro, basta un sistema che premi l’indignazione più della verifica. Cipolla aveva una capacità straordinaria di rendere l’economia accessibile senza banalizzarla, ed è esattamente ciò che il giornalismo dovrebbe fare: raccontare il complesso senza perdere rigore, perché senza comprensione non c’è vera libertà di scelta.

Torniamo al tuo articolo. Hai parlato di una “bacchetta magica” capace di trasformare il modo in cui lavoriamo con una magia che è già realtà: l’AI generativa. Quali opportunità dobbiamo cogliere e quali errori evitare?
L’AI generativa è davvero una “bacchetta magica” perché può amplificare enormemente le nostre capacità. Può analizzare enormi quantità di dati in pochi secondi, supportare la creatività, rendere accessibile il sapere in modi prima impensabili. Per il giornalismo, ad esempio, è uno strumento straordinario per la ricerca, la verifica delle fonti, la sintesi di informazioni complesse. Ma proprio come una bacchetta magica, non funziona da sola: serve chi la impugni con consapevolezza. L’errore più grande sarebbe delegare il nostro pensiero all’AI. Se ci limitiamo a usarla come sostituto invece che come amplificatore, rischiamo di perdere capacità critiche, creatività e persino il senso della realtà. Un altro pericolo è la standardizzazione: se tutti usiamo le stesse macchine per generare contenuti, il rischio è un’informazione omologata, piatta, senza sfumature. Dobbiamo invece sfruttarla per ciò che sa fare meglio: liberarci da compiti ripetitivi per concentrarci su ciò che è autenticamente umano. Nell’informazione, questo significa più tempo per l’analisi, l’inchiesta, il racconto di storie che un algoritmo non potrebbe mai cogliere nella loro complessità. L’AI può aiutarci a essere più produttivi, ma non deve mai sostituirsi al nostro giudizio. Perché se smettiamo di pensare, nessuna tecnologia potrà salvarci dalla disinformazione, né dalla stupidità di cui parlava Cipolla.
E non dimentichiamo la bacchetta magica di Topolino ne “L’apprendista stregone”…ma hai toccato un altro tasto cruciale parlando di complessità che riguarda la creatività e il talento. Penso a quelli tipicamente italiani. Continuerà a distinguerci anche in futuro dalle macchine?
Ottimo riferimento quello di Fantasia! La scena di Topolino che perde il controllo della magia è un’allegoria perfetta di cosa può succedere quando ci affidiamo a un potere senza comprenderne davvero i limiti. Sul pensiero laterale e la creatività, la sfida è aperta. L’AI sta già mostrando capacità sorprendenti nella generazione di idee, immagini e testi che possono sembrare originali. Ma è davvero creatività? Io direi di no, almeno non nel senso umano del termine. Un modello di AI può combinare dati esistenti in modi nuovi, può riconoscere schemi nascosti che a noi sfuggono, ma non ha intuizione, esperienza vissuta, emozioni. E soprattutto, non ha una vera capacità di dare senso a ciò che produce. Il pensiero laterale non è solo trovare soluzioni nuove, ma anche saper riconoscere quelle giuste, quelle che rispondono a un’esigenza reale in un contesto specifico. Ed è qui che il talento umano resta insostituibile. Gli italiani, con la loro capacità di pensare fuori dagli schemi e di trovare soluzioni creative in situazioni complesse, ne sono un esempio perfetto. L’AI può certamente stimolare nuove idee, essere uno strumento per esplorare possibilità che da soli non vedremmo, ma l’intuizione, il colpo di genio, il saper leggere tra le righe della realtà restano qualità umane. Dove vedo il rischio? Nella tentazione di affidarsi all’AI anche per ciò che dovrebbe restare dominio dell’intelligenza umana. Se smettiamo di allenare il pensiero critico e creativo, se ci abituiamo a soluzioni generate da macchine senza più metterle in discussione, allora sì, potremmo perdere ciò che ci distingue. Ma se usiamo l’AI come amplificatore del nostro talento, allora potremmo entrare in un’era di innovazione senza precedenti. La differenza, come sempre, dipenderà da come scegliamo di usare questa “bacchetta magica”.

Ci sono stati libri o film che ti hanno emozionato e hanno ispirato il tuo percorso professionale, che consiglieresti di leggere o vedere?
Ci sono stati libri e film che mi hanno lasciato un segno profondo, sia per la loro capacità di raccontare il mondo con lucidità, sia per l’emozione con cui esplorano il rapporto tra tecnologia, società e umanità. Uno dei libri che mi ha più influenzato è Il secolo breve di Eric Hobsbawm. Non è un testo di giornalismo, ma è un esempio straordinario di come si possa raccontare la complessità della storia con rigore e chiarezza. Hobsbawm riesce a intrecciare economia, politica, cultura e innovazione in un unico quadro, cosa che cerco sempre di fare anch’io nel mio lavoro. Sul fronte della narrativa, 1984 di George Orwell è una lettura che ogni giornalista dovrebbe affrontare, non solo per il tema del controllo dell’informazione, ma anche per la riflessione sul linguaggio e sul potere delle parole nel modellare la realtà. In modo diverso, anche La verità sul caso Harry Quebert di Joël Dicker mi ha colpita: è un romanzo che parla di indagine, di memoria, di come la verità possa essere manipolata o nascosta sotto strati di narrazione. Per quanto riguarda il cinema, Tutti gli uomini del presidente è un classico che mi ha fatto capire cosa significhi fare giornalismo d’inchiesta con determinazione e coraggio. Più di recente, The Post con Meryl Streep e Tom Hanks ha raccontato con straordinaria intensità l’importanza della libertà di stampa. Poi ci sono film di fantascienza che vanno oltre l’intrattenimento e diventano riflessioni profonde sulla tecnologia e l’umanità. Blade Runner è uno di questi: l’idea che la memoria e l’esperienza personale siano ciò che ci rende umani è una lezione fondamentale, soprattutto ora che l’AI sfida le nostre certezze su cosa significhi essere creativi e consapevoli. Alla fine, quello che mi emoziona davvero sono le storie che aiutano a vedere il mondo in modo nuovo, che siano saggi storici, romanzi, film d’inchiesta o di fantascienza. Perché il vero giornalismo, come la grande narrazione, non si limita a informare: trasforma il modo in cui comprendiamo la realtà.

E come lo immagini questo mondo nuovo? Ti senti, cosa non facile, di fare previsioni sul nostro futuro?
Fare previsioni sul futuro è sempre rischioso, perché tendiamo a sovrastimare i cambiamenti nel breve termine e a sottovalutarli nel lungo. Ma più che immaginare scenari rigidi, credo sia utile riconoscere le grandi forze che stanno plasmando il nostro mondo e capire dove ci stanno portando. La tecnologia, e in particolare l’Intelligenza Artificiale, avrà un impatto enorme. Renderà il lavoro più produttivo, abbatterà molte barriere all’accesso alla conoscenza e cambierà interi settori. Ma la domanda vera è: chi ne trarrà vantaggio? Se lasciamo che l’AI sia solo uno strumento di ottimizzazione per le grandi aziende, il rischio è un futuro di crescente disuguaglianza, con pochi che controllano i dati e molti che vedono il loro ruolo ridimensionato. Se invece riusciamo a renderla un’opportunità diffusa, potremmo assistere a un’esplosione di creatività e innovazione mai vista prima. Il cambiamento climatico è un altro grande punto interrogativo. O troviamo il modo di integrare crescita economica e sostenibilità, o i costi ambientali e sociali diventeranno insostenibili. Qui l’innovazione sarà cruciale, ma servono anche politiche coraggiose, perché la tecnologia da sola non basta. Sul fronte della società e della politica, vedo due possibili strade. Una è quella della frammentazione: polarizzazione estrema, disinformazione, perdita di fiducia nelle istituzioni. L’altra è quella di una nuova consapevolezza collettiva, in cui le persone tornano a investire nel valore della conoscenza, della comunità, del pensiero critico. Il ruolo dell’informazione sarà decisivo: se il giornalismo saprà reinventarsi, restando indipendente e credibile, potrà essere un argine contro la deriva del caos informativo. Quindi non so esattamente come sarà il futuro, ma so che non sarà scritto da solo. Sarà il risultato delle scelte che facciamo oggi, di come decidiamo di usare le tecnologie, di come gestiamo il potere dell’informazione. E sarà, inevitabilmente, più complesso di qualsiasi previsione.
Grazie Catherine. Riflessioni preziose, un vero piacere chiacchierare con te
Grazie a te, è stato un confronto stimolante. Il piacere è stato mio