«La Rai non usi la voce di mio padre rielaborata con l’Intelligenza Artificiale, è un’offesa alla sua memoria». Sono le parole di Davide Capone figlio di Claudio Capone, storico, indimenticato e indimenticabile – come conferma proprio la vicenda – doppiatore che ha dato spessore e calore ad alcuni dei programmi, film e serie televisive di maggior successo, sul grande e sul piccolo schermo: sua la voce fuori campo dei servizi di Quark di Piero Angela, quella di Luke Skywalker di Guerre Stellari e quella di Ridge di Beautiful.

Voci indimenticabili
Claudio Capone è scomparso prematuramente da quasi vent’anni eppure qualche settimana fa, all’inizio di febbraio, la sua voce ha, improvvisamente – e, a sorpresa per gli stessi familiari –, pronunciato parole che Claudio non ha mai detto in un programma RAI, “Splendida cornice”.
Niente magia, sedute spiritiche o stregoneria, naturalmente. Semplicemente qualcuno in Rai ha chiesto a uno dei tanti servizi basati sull’Intelligenza artificiale ormai disponibili per chiunque, gratuitamente o per pochi dollari al mese di abbonamento, di pronunciare le parole in questione con la voce, appunto, di Claudio Capone.
Il resto lo hanno fatto gli algoritmi dopo esser stati addestrati sulle registrazioni audio vere del compianto doppiatore. Niente, purtroppo, che non fosse già avvenuto e che non stia avvenendo ovunque nel mondo. E, proprio per questo, probabilmente, è importante parlarne per scongiurare il rischio che diventi normale ciò che normale non è, non può essere e non deve essere.
La voce di una persona contiene frammenti straordinariamente preziosi della sua identità personale, frammenti che la rendono unica, riconoscibile, identificabile tra milioni di altre persone. Una circostanza tanto vera che, appunto, la Rai per ottenere il risultato contro il quale – a ragione – il figlio di Capone ha puntato l’indice ha dovuto chiedere all’Intelligenza artificiale di generare una traccia audio proprio con la voce di Claudio Capone.
Se l’AI ruba le voci
Difficile discutere, per dirla in maniera appena più tecnica, della circostanza che la voce di una persona contiene dati personali, anzi, personalissimi, dati biometrici. E, una volta detto questo, difficile contestare la circostanza che per usare la voce di chicchessia attraverso un algoritmo di intelligenza artificiale capace di riprodurla serva il consenso della persona in questione.
In assenza si sta indiscutibilmente violando – salvo ipotesi eccezionali – la sua identità personale e le regole europee sulla protezione dei dati personali. E, regole a parte, si sta violando il diritto di ciascuno di noi di decidere cosa dire e cosa non dire, a chi prestare la nostra voce e a chi non prestarla.
Insomma, si sta violando il nostro sacrosanto diritto ad autodeterminare chi essere, come apparire, come dar corpo e anima alla nostra identità personale. Un fatto grave, verrebbe da aggiungere, poco o niente affatto etico prima ancora che illecito. Sin qui senza dire che, probabilmente, quando la voce utilizzata per addestrare un algoritmo proviene – come nel caso dei doppiatori – da una prestazione artistica, anche l’applicazione delle regole del diritto d’autore dovrebbe portare alla stessa conclusione.
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Ecco perché proprio non dovremmo far passare sotto silenzio quello che sta accadendo: ecco perché l’appello di Daniele Capone andrebbe raccolto senza neppure un attimo di esitazione, ecco perché, egualmente, andrebbe raccolto quello più ampio lanciato nei giorni scorsi dalle associazioni di categoria del settore doppiaggio ANAD (attori doppiatori), ADID (direttori di doppiaggio), AIDAC (adattatori dialoghisti), AIPAD (assistenti di doppiaggio) e ANFD (fonici di doppiaggio) che, giustamente, chiedono rispetto per il loro lavoro, per la loro arte e, ancora prima, per le loro voci, veicoli straordinari di identità, emozioni e creatività.
Bisognerebbe davvero evitare di far passare il principio che tecnologicamente possibile – e, anzi, tecnologicamente facile o facilissimo – significhi per i più anche giuridicamente legittimo e democraticamente e umanamente sostenibile perché non è così. Servizi e piattaforme di generazione diversamente intelligente di voci altrui – famose e meno famose – potranno anche provare a convincerci del contrario e invitarci a far prevalere l’usabilità sull’umanità ma l’auspicio è che tutti, a cominciare dall’industria dei contenuti – quella pubblica in testa – si sappia resistere a una tanto disumana tentazione.
Disporre della voce di una persona senza permesso è come disporre del suo nome e del suo cognome, del suo volto, dei suoi occhi, è, insomma, una forma di mercificazione illegale e, prima ancora immorale, di quanto c’è di più prezioso in ciascuno di noi.