«Dieci anni fa il Ceo Daniel Ek mi aveva chiesto di lanciare l’ufficio di Spotify a Los Angeles. L’azienda era presenta a New York, in fase pre IPO. Dovevamo scalare velocemente e a L.A c’era l’opportunità di essere nel centro dell’intrattenimento. Erano gli anni in cui Instagram stava crescendo». In origine Assia Grazioli-Venier avrebbe voluto fare la documentarista, ma in un certo senso si è comunque formata nel settore dei contenuti, a cominciare dagli esordi della rivoluzione su mobile.
Nata a Roma nel 1980, si è spostata a meno di dieci anni a New York con la famiglia. In questa nuova puntata della rubrica “Italiani dell’altro mondo”, ci ha raccontato il suo percorso, a cominciare dal momento di svolta: «A 36 anni ho scoperto di avere il cancro al seno. Ho deciso che avrei smesso di lavorare con Spotify per focalizzarmi sulla salute».
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Content is the king
Oggi Assia Grazioli-Venier è Co-founder di Muse Capital, fondo di Venture Capital con sede a Los Angeles, concentrato nel segmento early stage e con attenzione sul fronte diversity quando si investe. Nella terra delle opportunità – l’America – ha avuto modo di coltivare le proprie passioni, immergendosi anzitutto in un contesto scolastico di cui va ancora oggi fiera. «Dopo le superiori a Boston ho frequentato l’università a New York, una delle poche composte da sole donne e parte della Columbia».
Environmental biology è stato il suo campo di specializzazione accademica. Ai documentari, alla fine, ha però preferito la musica. «Faccio parte della generazione che ha vissuto un’infanzia formativa analogica e poi intrapreso una carriera nel digitale». Dopo l’università è riuscita a farsi notare da Ministry of Sound, nota etichetta con sede a Londra.
«A 22 anni ero una patita di quel mondo. Ho suggerito al fondatore di realizzare in house contenuti per il digitale». E così le si sono spalancate le porte di un primo importante lavoro: Creator and Head of Ministry of Sound TV and Radio. «Poco dopo è arrivata YouTube e i contenuti online. Uno dei primi deal in Europa di YouTube è stato proprio con Ministry of Sound».
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Gli anni, per intenderci, sono quelli pre iPhone. «Era un periodo incredibile perché sono stata catapultata nella tecnologia e nella musica. Dopo tre anni ho però lasciato per cominciare con una mia società di consulenza. Volevo lavorare per tutto l’ecosistema». Durante una conferenza a Monaco ha incontrato Daniel Ek, il Ceo di Spotify, nonché fondatore di una delle poche Big Tech europee riuscite a dettare un cambiamento epocale anche Oltreoceano. «Stavano cominciando a espandersi in vari mercati. Quando mi ha detto cosa stava sviluppando son quasi svenuta: l’idea di aver musica ovunque mi ha stimolato. Gli ho detto che ero lì per aiutare».
Mi manda Daniel Ek
Da lì l’opportunità di salire a bordo del colosso dello streaming, negli anni pre quotazione a Wall Street. Reparto progetti speciali. I sette anni in Spotify l’hanno vista supportare l’espansione della piattaforma in diversi mercati. Ha vissuto per un periodo in Svezia per poi spostarsi in California, a Los Angeles, dove ha aperto gli uffici della società. «A L.A il mio compito era fare M&A per la società. Non ero full time, ho fatto anche diverse interview. Una delle persone che ho conosciuto in questi incontri è Rachel Springate». Di lì a poco sarebbe diventata Co-Founder del progetto Muse Capital.
Il cancro al seno, a 36 anni, l’ha spinta a cambiare priorità e obiettivi nella propria carriera. «Insieme a Rachel ho capito che il settore salute legato alle donne è stato abbandonato, da sempre con pochi fondi e poca innovazione». Care, play e live sono i verticali di investimento: una cinquantina le startup in cui hanno messo un ticket, da massimo 1,5 milioni come lead investor in ambito early stage.
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Sempre quel dannato soffitto di cristallo
«Vogliamo investire in consumer technology company che creano tecnologie in grado di risolvere problemi». In un’America che ha di fronte a sè un’altra presidenza Trump, con un sacco di incognite legate ai diritti e certe tematiche come la possibilità delle donne di abortire, Assia Grazioli-Venier intende così il proprio mestiere di investitrice. «Nel settore VC di donne ce ne sono poche. Per questo abbiamo una responsabilità ancor più grande: investire nel mercato privato per creare una nuova generazione di ricchezza».
Come venture capitalist Grazioli-Venier non vuole di certo cambiare le regole del gioco in nome dell’empowerment femminile, ad esempio investendo senza tenere conto dei fondamentali. «Per intenderci: abbiamo fallito tutti se investiamo in aziende che non sono un’opportunità dal punto di vista economico. Dobbiamo puntare sui good business. È importante che chi entra nel settore lo faccia puntando al successo».
E quanti margini d’azione ci sono ad esempio nel femtech? «Nel women healthcare vedo opportunità mega galattiche. Ricordo che fino a 30 anni fa le donne erano escluse dai test clinici. Non abbiamo un mandato di investire in diversity, ma il 72% dei nostri founder è composto da donne o persone immigrate. Categorie che nel VC tradizionale son state trascurate».