Secondo il World Economic Forum, il divario di genere nella salute peserà sull’economia globale fino a 1 trilione di dollari entro il 2040, eppure solo l’1% degli investimenti in healthcare è destinato a soluzioni specifiche per la salute femminile. Ma c’è chi si occupa di cambiare le carte in tavola con una mission precisa: dare un contributo nella riduzione del gender gap. Come Valeria Leuti, 42 anni romana, appassionata di dati e innovazione, fondatrice di Tech4Fem, una no-profit dedicata alla crescita del FemTech e all’innovazione nella salute femminile, e presidente di Tech4Fem APS. L’associazione si impegna a sostenere startup, aziende e ricerca del settore per migliorare il benessere delle donne e trasformare la salute femminile in una priorità sociale, economica e di salute pubblica. Nella sua vita Valeria non fa solo questo: è anche una digital innovation advisor e divulgatrice sui temi del gender gap. In particolare, attraverso il suo profilo Instagram (@LaPelvifera) aiuta altre donne a prendere consapevolezza dei propri bisogni e di alcune patologie croniche che sino a poco tempo la scienza non riconosceva tali, come l’endometriosi. Valeria è anche L&D Manager EMEA, dove si occupa in particolare di soft skills e sviluppo dell’intelligenza emotiva, oltre a monitorare e studiare costantemente gli impatti dei bias di genere sull’Intelligenza artificiale amplificando il contributo femminile alle scienze e alle tecnologie. Dallo scorso anno è ambassador per la Rome Future Week, contribuendo a valorizzare il potenziale innovativo delle realtà romane, con un occhio attento alle tematiche di inclusione sociale e parità di genere. La abbiamo intervistata per la nostra rubrica Unstoppable Women.

Valeria, da che cosa nasce questa tua passione per il FemTech?
Da un’esperienza personale: dopo aver vissuto 7 anni a Milano, dove lavoravo per alcuni centri media come esperta di dati, innovazione e strategie, mi sono accorta che c’era qualcosa che non tornava con il mio stato di salute e su come i medici si relazionavano con me. Soffrivo da tempo di endometriosi, ma nessuno me lo aveva detto, sostenevano che rientrasse nel concetto di “normalità”. Sono stata vittima, come tante altre donne, di una diagnostica arrivata in estremo ritardo e vedere un corpo che non reagisce alle terapie è frustrante. Lo è, soprattutto, sentirti dire quando stai malissimo che in realtà “è tutto normale”. Da questa mia esperienza ho capito quanto sia centrale avere la possibilità di poter accedere a certe informazioni. Così mi sono affacciata al FemTech.
Da questa esperienza è nato il tuo profilo Instagram @LaPelvifera?
Esattamente, l’ho creato come un mio profilo personale, dove avevo il desiderio di interfacciarmi con altre donne per dirle: “Guardate che potete cambiare la vostra vita”. In meglio. Quando mi è stata diagnosticata l’endometriosi, per me i social sono stati una fonte fondamentale di conoscenza e informazione. E così credo che sia per la maggior parte delle persone che non trovano le risposte che cercano: proprio per questo è fondamentale veicolare sulle piattaforme informazioni corrette. Io ho sempre captato l’importanza di dover condividere con altri il mio trascorso e dare alla comunità quello che avevo imparato. Anche se aiutassi solo un’altra donna, per me già quello sarebbe un grande traguardo. I social mi hanno aiutata a fare pace col mio corpo e a costruire nuove relazioni.

Questa centralità dei social per te non è stata importante soltanto nel tuo percorso clinico con l’endometriosi?
No, io come moltissime donne, forse la maggioranza, nell’arco della mia vita sono stata vittima di episodi di gaslighting (ndr una forma di manipolazione psicologica nella quale il maltrattante agisce con l’intento di far dubitare la vittima della sua memoria e percezione) e lo combatto moltissimo. Il gaslighting è una microaggressione costante che ci fa dubitare di noi stesse e ci mette in una condizione di svantaggio che va a danno della nostra autostima. È un meccanismo psicologico perverso che si riflette non solo nel momento in cui lo si subisce ma anche una volta che se ne è uscite. E questo può inficiare anche nelle relazioni con gli altri. Così ho iniziato a utilizzare il mio profilo social anche per abbattere i tanti tabù che girano attorno a questo problema, studiandolo e smascherandolo soprattutto grazie all’aiuto di psicologi e psicologhe che mi hanno aiutata a riconoscere gli strumenti giusti per affrontarlo e non subirlo. È importante ricordandorsi che la violenza fa danni molto seri anche sulla salute fisica, non solo psicologica.
Anche per questo oggi ti batti per abbattere il gender gap?
Assolutamente, il FemTech è sempre stato un settore che mi piaceva studiare e che mi attraeva, ma non riuscivo a trovare la chiave di lettura giusta e mi chiedevo che cosa si stesse facendo in Italia per ridurre il divario di genere. Così ho iniziato con un evento all’interno della Rome Future Week che, in realtà, ha superato le mie aspettative e mi ha dato modo di conoscere e confrontarmi dal vivo con tantissime altre persone interessate all’argomento. Ho sempre ritenuto fondamentale che per avere l’approccio giusto a questi studi sia necessario creare un network che permette al mondo medico-sanitario di comunicare con gli stakeholder che ruotano attorno a questo settore.

È allora che è nata Tech4Fem?
Si, ho deciso di fondare questa no-profit dedicata alla crescita del FemTech e all’innovazione nella salute femminile e ho intercettato circa 80 realtà, molte giovanissime e alcune piccole con le quali costruire un sistema di relazioni. Alcune realtà di queste non sapevano neppure di far parte del FemTech, pertanto ho reputato essenziale creare una forte consapevolezza attorno al tema: non si tratta di tecnologie fatte dalle donne, ma per le donne. Teniamo presente un dato importante: l’80% di queste realtà è costituito da almeno una donna tra i founder e, quindi, il 20% da uomini. Ma se analizziamo il settore da un punto di vista di investimenti, un comparto guidato principalmente da uomini, a essere finanziati maggiormente (per il 90%) è proprio quel piccolo 20%. C’è un sommerso immenso e sembra che le donne non se ne occupino se si prendono come, metro, appunto, i finanziamenti.
Un gender gap anche in termini economici, quindi..
Sì, ed è proprio per abbattere questo soffitto di cristallo che vogliamo far conoscere il nostro lavoro e più in generale il comparto del FemTech, con l’intento di supportare tutto l’ecosistema che vi ruota attorno. Io mi sono sempre occupata di dati e competenze e dal confronto con altri professionisti è emersa l’esigenza di raccogliere più informazioni su questo universo. Informazioni che a oggi sono molto difficili da reperire. Per questo motivo, in collaborazione con Minerva Lab dell’università La Sapienza di Roma, abbiamo dato vita al primo Osservatorio sul FemTech, che analizza scrupolosamente quello che gira attorno a questo settore: chi ne fa parte, quali sono le opportunità, l’accesso al credito, gli investimenti, la censura, il welfare, condividendo, poi, questi dati a livello internazionale. Il FemTech si muove sulle urgenze delle donne nel paese che lo vivono, dipende anche dalla situazione sociale e con il mio team stiamo cercando di costruire un modello resiliente che possa raccontare di una multidisciplinarietà che si apre a tante realtà e professionalità, dalle associazioni alle imprese ma non solo. Sono convinta che la costruzione della rete sia il primo tassello verso il futuro.

Puoi raccontarci un aneddoto che ti è rimasto in mente?
Si, avevo conosciuto una realtà, l’unica in Italia, fondata da solo due uomini. Io davo per scontato che le difficoltà di accesso al credito riguardassero principalmente le differenze di genere ma quei due founder mi hanno spiegato come, invece, loro stessi abbiano incontrato tantissimi ostacoli e abbiano ricevuto lo stesso trattamento di molte altre donne. E questo è un problema bilaterale: perchè se da una parte nell’universo maschile c’è una maggiore difficoltà a interpretare i bisogni femminili, per contro, gli uomini che, invece, lo fanno, non vengono, comunque, incentivati e anche a loro possono “sbattere la porta in faccia”.
Come ridurre, quindi, secondo te, questi divari?
Anzitutto, la parola chiave credo che sia “consapevolezza”. Prendere coscienza della propria condizione e dei propri bisogni è fondamentale. Poi ci vuole supporto. Pensiamo che ancora oggi spesso succede che la medicina di genere venga messa di lato, relegata a una piccola stanza in fondo a un corridoio di ospedale, ma rappresenterebbe, invece, una svolta in molti campi. Poi è fondamentale costruire dati per i trial di genere e in questo stiamo notando una certa reticenza da parte del mondo femminile a farsi coinvolgere. Ci dovrebbe essere, invece, una maggiore apertura. Alcune realtà FemTech stanno chiudendo non perché non siano efficaci nel mercato ma perchè non hanno fondi destinati alla ricerca proprio perchè mancano i dati. Chiediamoci, quindi, perchè ancora oggi le due cause principali di dimissioni dal lavoro di una donna siano rimanere incinta e iniziare la menopausa.