In occasione dell’8 marzo pubblichiamo un estratto del libro La Scienza al femminile, FrancoAngeli edizioni, di Maria Pia Abbracchio e Giacomo Lorenzini. In un mondo dominato dal patriarcato, una femmina poteva ascoltare ma non parlare di Scienza. Ci sono state, però, eccezioni: donne che con il loro lavoro hanno inventato il futuro e indicato la strada alle nuove generazioni. Alcuni esempi di questi talenti sono descritti nel volume, unitamente a storie brillanti dell’attualità di donne “che ce l’hanno fatta” e che possono rappresentare un modello di ruolo per le ragazze che aspirano a studiare materie scientifiche e a iniziare una carriera accademica
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Le donne sono state sempre presenti nella scienza fin dagli albori della storia dell’uomo, anche se poche di loro sono passate ai posteri per l’importanza delle ricerche svolte. Poche di loro, infatti, hanno potuto sviluppare la consapevolezza del ruolo attivo che le donne possono avere nel progresso della conoscenza.
Tutte le altre hanno partecipato intensamente a moltissime scoperte, semplicemente perché spinte dalla passione per la ricerca, senza preoccuparsi del riconoscimento personale del proprio lavoro. Nella maggior parte dei casi, a causa della convinzione diffusa che le donne non erano “tagliate” per le carriere scientifiche, queste ricercatrici non avevano accesso ad una istruzione formale e alle società scientifiche, dove veniva scritta e lasciata ai posteri la storia ufficiale delle scoperte. Ecco perché le tracce di queste donne si sono perse nel tempo, e solo di recente si è sentito il bisogno di rivisitarne il ruolo e di sottrarne i nomi all’oblio. Alcune delle figure di queste sconosciute scienziate del passato sono ricordate in questo articolo.
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Oggi, la situazione è fortunatamente molto cambiata, e tutti concordano sul fatto che le donne sono in grado di contribuire al progresso della scienza nella stessa maniera degli uomini. L’accesso alle carriere STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) dipende dal grado di istruzione (in particolare dalla formazione superiore di terzo livello), che ancora rappresenta il pilastro fondamentale per lo sviluppo delle capacità intellettuali e dell’autodeterminazione personale.

Tuttavia, nonostante i progressi fatti negli ultimi decenni, permangono ancora criticità nell’effettiva parità di genere (riassunte nella Sezione 2) e nel reale accesso agli studi superiori, soprattutto per le studentesse provenienti da famiglie di reddito medio-basso. Il diritto allo studio, la rimozione degli ostacoli – come prescritto dalla nostra Costituzione – che impediscono ai più meritevoli di raggiungere i gradi più elevati di istruzione e l’ascensore sociale vanno perseguiti e ribaditi con forza, perché in realtà non ancora del tutto realizzati nella vita concreta di tutti i giorni. Infine, i diritti delle donne non sono mai acquisiti per sempre, ma vengono continuamente messi a rischio da eventi esterni.
Le emergenze geopolitiche, la perdita della democrazia, l’instaurarsi di regimi autoritari, le guerre, le carestie e anche le emergenze sanitarie (come dimostrato dalla recente pandemia da Covid-19) sono associati invariabilmente ad una regressione dei diritti acquisiti dalle donne e dalle minoranze. In particolare, il primo diritto ad essere negato è l’accesso all’istruzione. La ragione è piuttosto ovvia: l’istruzione rimane fattore indispensabile per sviluppare la capacità di autodeterminazione, realizzando i 3 principali paradigmi alla base della libertà personale: autonomia, competenza e capacità sociale di relazionarsi con il mondo esterno. Mantenere le bambine in stato di ignoranza renderà più facile sottometterle all’ingiustizia della segregazione culturale e sociale, alla quale non potranno sottrarsi perché incapaci di sviluppare la loro indipendenza.
Le tante scienziate sconosciute del passato Come già accennato, a parte grandissime personalità come Marie Curie, Rita Levi Montalcini, Margherita Hack, Amalia Ercoli Finzi e alcune altre, che erano già ben consapevoli del loro ruolo (e delle quali conosciamo l’impegno e la straordinarietà dei contributi), di tutte le altre scienziate del passato sappiamo ben poco. Le loro storie vanno ricostruite da quanto ci resta dei taccuini di laboratorio, dei diari familiari, dei cataloghi botanici, anatomici o astronomici ai quali queste donne hanno partecipato con un lavoro certosino e paziente, con precisione straordinaria ma mai soltanto meramente tecnica. Oppure, il loro contributo può essere riscostruito dalle lettere che scambiavano con i mariti, padri, o i figli scienziati con i quali (ma soprattutto per i quali) lavoravano.
Significativi sono i carteggi scambiati da Albert Einstein con la moglie Milena Marić (compagna di studi e coautrice di diversi progetti all’inizio della carriera del marito), nei quali i due scienziati si confrontavano sulla teoria della relatività, suggerendo che Milena abbia avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo iniziale delle teorie sulla relatività che avrebbero poi portato Einstein a vincere il Nobel nel 1921. Pur di soddisfare la loro voglia di conoscenza le donne si accontentavano di ruoli ancillari e di operare al fianco di scienziati maschi che poi detenevano la proprietà delle scoperte all’interno delle accademie, delle società scientifiche e degli archivi delle riviste scientifiche.
Proprio perché spesso alle donne scienziate venivano affidati compiti ritenuti noiosi e ripetitivi per i maschi (conteggi, catalogazioni, elenchi), fra i casi più eclatanti di scienziate del passato vi è quello delle donne-computer “adibite” alla classificazione delle stelle della sfera celeste negli osservatori astronomici di Greenwich, dell’Imperial College London e dell’Harvard College Observatory di Cambridge, dove, nell’ultimo decennio del 1800, durante l’estate, venivano assunti sia studenti che donne col ruolo di “calcolatori sovrannumerari”. Queste signore in realtà non si limitarono a riportare nei loro quaderni di lavoro le coordinate delle stelle che osservavano, ma ne scoprirono di nuove, e con inedito spirito imprenditoriale si preoccuparono perfino di pubblicare i loro risultati in riviste che potessero divulgare i nuovi dati all’intera comunità scientifica.

Le più famose di queste generazioni di calcolatrici umane sono forse Katherine Johnson, Mary Jackson e Dorothy Vaughan, matematiche, fisiche e informatiche, protagoniste del film Hidden Figures (in Italia, Il diritto di contare), che ne ricostruisce la storia al Langley Lab di Hampton in Virginia, dove erano adibite al calcolo manuale delle orbite, delle finestre di lancio e dei percorsi di ritorno di emergenza per le missioni dei programmi spaziali Apollo e Space Shuttle. Le 3 scienziate erano parte della squadra di calcolo (le “Rocket girls”) nella quale erano presenti molte donne afroamericane (“colored computer”), soggette quindi a più tipi di discriminazione: quella razziale e quella di gender, in quanto obbligate, dalle leggi allora in vigore, a lavorare, pranzare e usare servizi igienici separati dai loro colleghi maschi e bianchi.
Tuttavia, la precisione e l’affidabilità dei loro calcoli era talmente elevata che si racconta come, anche dopo l’introduzione dei computer, John Glenn, il primo astronauta americano a orbitare intorno alla Terra, chiese che Katherine Johnson ricontrollasse manualmente i dati delle orbite («Se lei dice che vanno bene, allora sono pronto a partire». Testo disponibile). Non meno interessante è la storia dell’impresa straordinaria, anche questa ricostruita solo di recente, compiuta nel primo decennio del Novecento da 4 suore “astronome”, reclutate dal Vaticano per la prima mappatura completa del cielo (la prima Carte du ciel) alla quale parteciparono esperti da ogni Paese del mondo, i cui lavori iniziarono tra il 1897 ed il 1899 (e si protrassero in realtà fino al 1966, permettendo la catalogazione di 5 milioni di stelle: un’opera che ebbe un ruolo fondamentale per la nascita dell’astronomia moderna e le future conquiste dello spazio).
La Specola Vaticana decise di affidare i noiosi compiti di registrazione e calcolo delle coordinate stellari a 4 suore lombarde, semplicemente perché vivevano in un convento vicino al telescopio dove sarebbe stato condotto il lavoro. Dopo essere state rapidamente addestrate, Regina Colombo, Concetta Finardi, Luigia Panceri ed Emilia Ponzoni, iniziarono a lavorare alacremente, non solo al calcolo delle coordinate delle stelle ma anche all’osservazione diretta della sfera celeste con il telescopio, riuscendo così a catalogare più di quattrocentomila stelle. Un esempio eccezionale di intraprendenza, indipendenza e imprenditorialità, che andavano ben oltre possibili ambizioni di visibilità futura, tant’è vero che i nomi delle 4 suore sono stati scoperti casualmente circa un secolo dopo da un giornalista del sito Vatican News.
Proprio grazie al lavoro incredibile di queste donne, il Vaticano fu uno degli Stati che contribuì maggiormente alla compilazione di questa prima mappatura del cielo. In realtà, scienziate pioniere sono esistite fin dall’antichità in ogni campo della conoscenza: basti pensare all’opera immane di catalogazione svolta da Gina Lombroso, figlia del ben più famoso criminologo Cesare Lombroso, che fin da bambina, attratta dall’attività scientifica del padre, venne da quest’ultimo ammessa nel suo studio, dove lo aiutò a catalogare i suoi numerosissimi casi, dando un contributo sostanziale alla trasmissione ai posteri delle sue scoperte. Gina aveva mostrato interesse per la medicina fin da piccolissima, ma, come era prassi all’epoca, essendo molto brava a scuola, fu indirizzata a studi classici; dopo una prima laurea in Lettere, si iscrisse anche a Medicina, e divenne da adulta una delle più intelligenti e attive femministe dell’epoca.
Oppure, basti pensare a scienziate come Nettie Stevens, genetista e microbiologa statunitense, morta a soli 51 anni nel 1912, prima scienziata in assoluto ad identificare i cromosomi X e Y responsabili della trasmissione del sesso, una delle maggiori scoperte del XX secolo. Fin da quando era allieva del biologo Thomas Hunt Morgan, e poi da sola in maniera indipendente, Nettie aveva notato che, in alcune specie di insetti, gli esemplari femminili avevano venti cromosomi identici, mentre in quelli maschili uno era più piccolo (quello che verrà poi identificato come il cromosoma Y). All’inizio, come spesso succede per le scoperte molto innovative, questi risultati vennero accolti con scetticismo dalla comunità scientifica e rigettati dallo stesso Morgan, che però, in seguito alla conferma dei dati di Nettie da parte di altri ricercatori, decise di mettersi lui stesso a lavorare sullo stesso argomento. Giungendo a conclusioni molto simili, pubblicò i suoi risultati sulla prestigiosa rivista Science nel 1911, senza riconoscere la priorità della scoperta alla Stevens.
Va sottolineato che nel 1933 Morgan vinse il premio Nobel proprio per questi studi. L’anno successivo alla pubblicazione su Science, fu lo stesso Morgan a dedicare a Nettie, purtroppo deceduta nel frattempo, un ampio necrologio sottilmente limitativo, nel quale riconosceva il valore dei suoi esperimenti, attribuendole però un ruolo più da tecnica che da scienziata. L’intento riduttivo del lavoro di Nettie è molto chiaro nella versione originale inglese del necrologio (si veda confronto fra testo italiano e testo inglese in Donne nella scienza. La lunga strada verso la parità1). Come anche evidenziato da Adriana Albini nella Prefazione a questo volume, la svalutazione del contributo delle scienziate a mero supporto tecnico rappresenta una delle modalità più sottili (e al tempo stesso più meschine) con le quali è stato spesso sminuito il valore originale e unico delle donne al progresso della scienza.

Quando non si poteva negare il loro lavoro, allora lo si relegava ad un ruolo ancillare, non originale né ideativo, ma esclusivamente esecutivo. Un altro caso eclatante è rappresentato da quello di Rosalind Franklin, chimica inglese che, pur non comparendo fra gli assegnatari del Premio Nobel conferito per questa scoperta fondamentale, per prima fotografò la struttura a doppia elica del DNA nel quale sono contenute le informazioni genetiche di tutti gli individui del regno animale e vegetale. Laureata a soli 21 anni a Cambridge col massimo dei voti, fin da giovanissima la sua fama di scienziata brillante e intelligente fu tale da indurre Maurice Wilkins ad offrirle una collaborazione al King’s College di Londra.
Wilkins voleva Franklin come sua assistente tecnica, pronta a passargli i dati che lei produceva a sostegno delle sue ipotesi. Lei, invece, ambiva ad una collaborazione paritaria e infatti dopo il suo trasferimento al King’s College, i due non andarono mai d’accordo, e quasi da subito si separarono, ognuno continuando le proprie ricerche. Dopo anni di lavoro intensissimo, Franklin ottenne foto del DNA straordinariamente chiare: soprattutto, nella famosa fotografia n. 51, era evidente la doppia elica sinistrorsa anti-parallela dell’acido desossi ribonucleico.
Purtroppo, un suo collaboratore mostrò incautamente la foto a Wilkins, il quale a sua volta la condivise con due altri colleghi, James Dewey Watson e Francis Crick del Cavendish Laboratory di Cambridge. Nessuno dei due era stato arruolato dal Cavendish Laboratory per studiare il DNA, ma entrambi nutrivano un grandissimo interesse per l’argomento al momento molto “caldo”, e avevano disegnato un primo modello a 3 eliche, rivelatosi poi inesatto. Watson riconobbe immediatamente nella fotografia n. 51 il “pezzo mancante del puzzle”, che gli consentì di realizzare il primo modello corretto, e di pubblicarlo insieme con Crick nell’aprile del 1953 sulla rivista scientifica Nature. Lo stesso numero di Nature riportava anche altri due articoli sulla struttura del DNA, uno a firma di Wilkins e dei suoi collaboratori, e un altro a firma di Franklin e del suo studente Gosling.
Nel 1962 James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins ottennero il Premio Nobel per la Medicina per la scoperta della struttura del DNA e anche in quella occasione non riconobbero il contributo di Rosalind. Nonostante questo, la scienziata continuò a lavorare alla struttura del DNA anche negli anni successivi con determinazione e competenza, arrivando ad un’altra scoperta straordinariamente importante, quella del codice genetico. Franklin scoprì che i “mattoni” che costituiscono la sequenza del DNA, le cosiddette basi azotate, non sono appaiati a caso l’uno di fronte all’altro nella struttura a doppia elica, ma si dispongono secondo un ordine ben preciso, e che questi appaiamenti selettivi sono alla base di come l’informazione genetica contenuta nel DNA viene “traslata” nella produzione di proteine che a loro volta determinano i nostri caratteri somatici, dal colore di occhi e dei capelli, all’altezza e robustezza, fino alle sfumature del nostro comportamento.

Quindi, pur non ottenendo il giusto riconoscimento e la visibilità per il lavoro fatto, le donne sono sempre state presenti nella storia della scienza, anche se spesso come figure ancillari e invisibili guidate dalla loro intelligenza e dalla passione straordinaria per la conoscenza. Ora, come già accennato, la situazione è fortunatamente molto cambiata. È evidente che l’accesso alle carriere scientifiche dipende dal grado di istruzione (in particolare dalla formazione superiore di terzo livello), pilastro fondamentale per lo sviluppo della personalità e dell’autodeterminazione personale. Teoricamente, in Europa, tutti e tutte hanno il diritto di accedere alla conoscenza e agli studi fino ai livelli più alti semplicemente in base ai loro talenti e al merito, indipendentemente da sesso, stato sociale e possibilità economiche.
Purtroppo però non sempre la teoria trova realizzazione nella pratica, e permangono criticità nell’effettivo accesso agli studi superiori per gli studenti e le studentesse provenienti da famiglie di reddito medio-basso. Troppo spesso riuscire a costruirsi una formazione idonea ad accedere alle carriere più prestigiose (non solo quelle scientifiche ma anche quelle dai livelli professionali più elevati) dipende da fattori ambientali che non hanno nulla a che vedere con la volontà di farcela, le capacità personali e il merito. Parità di genere: Italia sempre più indietro nel 2024 Purtroppo l’Italia non si è posizionata affatto bene nell’ultimo Global Gender Gap Report che riporta la classifica, stilata dal World Economic Forum, dei Paesi che meglio si stanno muovendo sul tema della parità di genere.
Giunto alla sua 18ª edizione, il Report confronta la parità di genere in 146 economie. A giugno 2024, al primo posto, c’è l’Islanda che, da oltre un decennio, continua a essere l’unica ad aver colmato il gap di oltre il 90%. Nella top 10 mondiale vi sono poi altri 6 Paesi europei: Finlandia (2°, 87,5%), Norvegia (3°, 87,5%), Svezia (5°, 81,6%), Germania (7°, 81%), Irlanda (9°, 80,2%) e Spagna (10°, 79,7%). L’Italia, invece, occupa l’87° posto della classifica perdendo ben 8 posizioni rispetto al 2023 e con un punteggio pari a 70,3 % (in calo rispetto a 70,5 dello scorso anno). Questo a discapito di quanto scritto nella nostra stessa Costituzione, straordinariamente inclusiva e rispettosa dei diritti naturali di tutti, uomini e donne, e incredibilmente moderna ancora oggi, tant’è che fin dalla sua pubblicazione nel dicembre del 1947 è stata presa a modello per formulare la carta costituzionale di molti altri Paesi.
Quindi, la parità di genere sancita dalla nostra Costituzione non è ancora pienamente compiuta nella realtà quotidiana, e ogni passo in avanti nella sua realizzazione ha richiesto impegno e fatica, fin dall’inizio (si veda anche: Postfazione. Breve Storia dei diritti delle donne). Ad esempio, dobbiamo ad Angela Merlin, una delle Madri Costituenti, l’introduzione dell’inciso «senza distinzioni di sesso» al primo comma dell’Art 3 della Costituzione, che precisa in maniera inequivocabile il divieto della discriminazione di genere. Per una discussione ampia dei dibattiti che si sono svolti in seno alle Sotto-Commissioni per la formulazione del testo finale della Costituzione ogniqualvolta venivano affrontati aspetti da normare che riguardavano le donne, si invita il lettore a far riferimento al cap. VI di Donne nella Scienza.
Qui riportiamo soltanto un episodio molto significativo, che si svolse fra i Padri e le Madri Costituenti in relazione alla tutela della funzione familiare della donna lavoratrice. Quando arrivò il momento di discutere il ruolo della donna nel lavoro esterno alla famiglia, venne presentata una proposta in relazione all’art. 33 del progetto (oggi art. 37 Cost.) condivisa dal Partito comunista e dalla Democrazia cristiana che mirava a garantire alla donna «condizioni particolari che le consentano di adempiere al suo lavoro e alla sua missione familiare». L’Onorevole La Pira propose di aggiungere l’aggettivo «prevalente» per caratterizzare la missione familiare della donna, registrando il consenso dell’Onorevole Lucifero, che ritenne che tale proposta «dà un carattere umano all’articolo della Costituzione, poiché effettivamente la funzione della donna, fin quando esisterà la famiglia, è prevalentemente nell’ambito di questa. Il lavoro e le funzioni che la donna deve esercitare come madre e come sposa prevalgono su quelli che essa può esercitare come lavoratrice».
L’Onorevole Moro, al fine di giungere ad una soluzione di compromesso per garantire tanto il diritto al lavoro della donna, quanto la tutela della sua funzione familiare, propose di sostituire l’aggettivo «prevalente» con l’aggettivo «essenziale». In tal modo, secondo Moro, si sarebbe garantita l’essenzialità della missione familiare della donna, senza interferire con la sua attività di lavoratrice. Questo è solo un piccolo esempio di come la strada verso la parità dipenda anche da una singola parola e dalla buona volontà degli uomini di riconoscere pari diritti alle donne, e di come l’avanzamento proceda per piccoli passi molto (troppo!) lentamente. Il Gender Snapshot 2022 dell’ONU, che analizza lo stato delle disparità di genere relazionato ai 17 obiettivi di sviluppo sostenibile, ha stimato in quasi 300 anni il tempo ancora necessario ad arrivare ad una “piena” uguaglianza di genere (testo completo).
UN DESA ha calcolato che ci vorranno fino a 286 anni per colmare il gap attualmente esistente nella protezione legale delle donne e nella rimozione di leggi discriminatorie, 140 anni affinché le donne siano rappresentate in maniera egualitaria in posizioni di potere e leadership sul posto di lavoro, e almeno 40 anni per raggiungere un’equa rappresentatività nei parlamenti nazionali (testo completo al sito). Le grandi sfide globali che dobbiamo affrontare, subito e ora, hanno bisogno anche della presenza delle donne e non ci permettono però di aspettare così tanto. 1. Perché la lotta per i diritti delle donne è così importante per la libertà e la democrazia Come già precisato sopra, il fatto che ci siano dei diritti scritti sulla carta non significa che esista la parità, né che questa parità sia per sempre garantita.
Nel nostro Paese, come in tutti i Paesi del mondo, la parità è continuamente messa a repentaglio ogniqualvolta si presenti un evento avverso straordinario. Durante le crisi economiche, le emergenze climatiche o sanitarie, durante le guerre o in tutti gli accadimenti politici e sociali che comportano una riduzione della democrazia, sono le donne e le altre popolazioni fragili delle comunità a veder regredire i loro diritti e a sperimentare sulla loro pelle le conseguenze di questi eventi. Il Gender Equality Index data relativo al 2022, pubblicato pochi giorni prima della giornata della donna del 2023 ha evidenziato come, a causa dell’impatto della pandemia da Covid-19 e dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, si sia registrato un chiaro arresto (e in alcuni casi una regressione) dell’uguaglianza di genere sul lavoro e nell’accesso alla conoscenza rispetto agli anni precedenti. In Europa, le donne sono state le prime a perdere il lavoro o a dover accettare il part time durante il periodo della pandemia. Dati molto simili sono stati riportati anche dal report delle Nazioni Unite, sottolineando che, se questo trend non viene immediatamente invertito, l’Obiettivo n. 5 per lo Sviluppo Sostenibile (uguaglianza di genere) non verrà raggiunto nel 2030 come programmato inizialmente (testo completo).